19 giugno 2021: il Vescovo Beniamino da 10 anni nella diocesi di Vicenza

Il 19 giugno 2011, in una domenica molto afosa, mons. Beniamino Pizziol ha fatto il suo ingresso come nuovo vescovo della diocesi di Vicenza dopo esser andato nella basilica di Monte Berico per affidare questo nuovo impegno ecclesiale allo sguardo di Maria, tanto cara ai vicentini, ma non solo.
Con riconoscenza al Signore e a tutta la Chiesa il 19 giugno 2021 ha celebrato la Messa delle 8 in cattedrale, come ogni mattina, ma ricordando alcuni motivi di particolare gratitudine per questi anni di episcopato vicentino.
Ricordiamo questi 10 anni di episcopato con l’intervista di Lauro Pauletto, direttore de La voce dei Berici.

 

Il vescovo Beniamino traccia un bilancio dei primi dieci anni di episcopato a Vicenza.

1 9 giugno 2011 – 19 giugno 2021: dieci anni di episcopato di mons. Beniamino Pizziol alla guida della nostra diocesi. Un decennio intenso, impegnativo, caratterizzato da grandi e rapidi cambiamenti. Gli anniversari servono per fare sintesi e memoria di quanto vissuto, dal punto di vista personale e della comunità ecclesiale per pensare con fiducia il futuro. Con questo spirito abbiamo incontrato il vescovo Beniamino per guardare con lui a questi anni.

Eccellenza, come è cambiata la Diocesi di Vicenza in questi 10 anni?

«I cambiamenti possono essere letti attraverso alcuni numeri. Nel 2011 c’erano 520 preti diocesani oggi sono 397. C’erano 197 sacerdoti religiosi attualmente sono 161. I diaconi permanenti erano 28 e oggi sono 41. Attualmente abbiamo 1.115 religiose nel 2010 erano 1716. I 22 vicariati sono diventati 18, le 79 unità pastorali per 224 parrocchie sono oggi diventate 91 però per 325 parrocchie. Allora c’erano 131 parrocchie singole che si sono ridotte a 20. Ma la prospettiva riguarda una nuova presenza sul territorio con un nuovo volto più evangelico e con un nuovo stile sinodale. Ecco alcune riforme attuate: un rinnovato itinerario catecumenale della Iniziazione Cristiana, gli uffici riuniti in quattro ambiti, le fraternità presbiterali, i gruppi ministeriali, le unità pastorali intese come comunione tra fedeli e non semplici accorpamenti di parrocchie, il discernimento comunitario sulle strutture di proprietà della Diocesi da mantenere o da alienare. Si tratta di un cammino in corso, che deve proseguire. Ogni processo richiede fatica anche perché è un cambiamento molto profondo in un quadro in cui, tra l’altro, la vita e il contesto sociale si sono complicati. C’è la fatica del camminare insieme, ma c’è una direzione e non ci siamo lasciati trascinare dalla corrente ».

Se dovesse scegliere dall’album tre foto di questi 10 anni particolarmente rilevanti a livello personale, ecclesiale o sociale, quali sceglierebbe?

«A livello personale il 3 giugno 2014 l’accoglienza a Ciampino di don Gianantonio Allegri e don Giampaolo Marta (i preti ‘fidei donum’ rapiti in Camerun) con la presenza del ministro degli interni Alfano e del ministro degli esteri Mogherini. Quella scena rimane scolpita nel mio cuore e nella mia mente. Li ricordo dimagriti, ma con la gioia di essere in Italia dopo 57 giorni. Per la foto ecclesiale scelgo l’ordinazione nel 2016 di sette preti, il numero maggiore di presbiteri che ho ordinato in una volta (in dieci anni ne ho ordinati 35). Dal punto di vista sociale ricordo la Marcia della pace nazionale del 31 dicembre del 2014».

Cosa vuol dire essere vescovo con papa Francesco?

«Significa stare in mezzo al popolo di Dio con uno stile semplice, essenziale e familiare, come fa lui, ascoltando le persone, valorizzando l’incontro, il dialogo e le relazioni interpersonali. Significa mettere al centro Cristo e il suo vangelo, coinvolgendosi con i grandi problemi che affliggono la famiglia umana: le diseguaglianze sociali ed economiche, il disarmo nucleare, la cura del creato, il dialogo interreligioso. Avere una vita sobria ed essenziale».

Il Vescovo incontra tantissime persone e, immaginiamo, moltissime le porta in cuore. Ci racconti due persone che l’hanno colpita in modo particolare?

«Lui è un uomo di 52 anni, una persona fragile che ha attraversato momenti difficili nella vita. L’ho conosciuto due anni fa dopo una messa in cui lui si è fatto notare con alcuni gesti strani. Per me era importante conoscere il suo nome e la sua storia. Finita la messa ci siamo seduti da una parte e lì è iniziata una relazione che prosegue tuttora. Lo invito almeno una volta al mese in episcopio e mi racconta un po’ di lui. Ci tiene molto a incontrarmi e ne va fiero e anche per me ogni volta è motivo di gioia interiore e di stupore nello scoprire i sentimenti di umanità e di verità che scaturiscono dal cuore provato e tormentato di questo fratello. L’altra persona che mi ha colpito in modo speciale è una missionaria laica della Comunità Papa Giovanni che vive in Colombia, in una comunità di uomini e donne continuamente minacciati di esproprio delle loro terre e persino, in caso di resistenza, di esproprio della loro vita. Questa missionaria li accompagna al lavoro, rischiando ogni giorno di essere uccisa. In lei e negli altri fratelli e sorelle come lei, intravvedo Gesù che cammina verso Gerusalemme per dare compimento alla sua missione».

In questo decennio c’è stato un ripensamento profondo dell’uso delle strutture. A che punto siamo?

«Con i miei collaboratori, all’inizio, abbiamo fatto un censimento delle strutture avendo chiaro che quattro realtà non si possono toccare: l’episcopio, con alcuni uffici di Curia e con il Museo, la Casa per i sacerdoti anziani di S. Rocco, il Seminario con la Curia e altre istituzioni diocesane, infine, Villa San Carlo, la casa diocesana degli Esercizi Spirituali. Tutte le altre strutture potrebbero cambiare destinazione o essere alienate. Stiamo arrivando alla vendita di Casa Regina Mundi, al Cavallino, abbiamo già venduto una parte dell’ex seminario teologico all’Ulss, abbiamo riorganizzato gli uffici e diverse realtà concentrando tutto nel blocco del seminario che è diventato il cuore pastorale della Diocesi. C’è da pensare cosa fare con il San Faustino e il pensionato San Marco. Gli altri locali dell’ex seminario teologico sono attualmente affittati a una Scuola in inglese. Vedremo in futuro se trovare una soluzione più vicina alle finalità e allo stile della diocesi. Quello che ci è capitato, in questi mesi, senza cercarlo è il convento dei Frati Minori Francescani, in Borgo Santa Lucia, che ci è stato donato». 

Uno dei fenomeni di questi anni che più colpisce è il calo del numero di preti. Come vive tutto questo?

«C’è una riduzione numerica delle comunità cristiane nel loro complesso che la pandemia ha acuita ulteriormente: una diminuzione dei fedeli, dei religiosi, dei preti. Diverso il discorso dei diaconi che rappresentano una prospettiva importante. Questa diminuzione va letta anche come opportunità perché il soggetto diventi la comunità cristiana. In tale prospettiva il confronto sul tema della ministerialità è una priorità e per questo bisogna insistere sulla dimensione vocazionale di ogni battezzato. Bisogna discernere il perché di questi fenomeni concomitanti. Ad esempio la diminuzione della natalità, dei matrimoni sacramentali, la diminuzione di vocazioni alla vita consacrata e al ministero ordinato. Nella storia del popolo di Israele e della Chiesa c’è sempre stato questo processo: dal grande gruppo al piccolo ‘resto’. Ricordiamo l’episodio del diluvio, dell’esilio, delle guerre, delle pestilenze. Il piccolo ‘resto’ si mantiene fedele e va avanti. Forse noi siamo in un momento in cui la secolarizzazione ci costringe a pensare alla nostra fedeltà a Dio e la nostra fiducia in Lui. È un cammino di purificazione spirituale, che la pandemia ha rafforzato».

Dopo quasi un anno e mezzo, forse, stiamo uscendo dalla pandemia. Cosa si è rivelato invece come un elemento di speranza?

«È stato, come ho detto più volte, un tempo di dolore e di grazia. Ha interrogato tutte le persone che pensano e vivono con responsabilità la dimensione personale, ecclesiale e sociale. Le persone ‘responsabili e pensanti’ hanno capito che questa pandemia ha cambiato il mondo, il nostro modo di vedere gli avvenimenti della storia. La pandemia può essere una opportunità per cambiare la visione del mondo (la weltanschauung), della persona umana, dell’economia, delle relazioni sociali della solidarietà mondiale. Questa pandemia poi ha toccato il modo di celebrare l’eucaristia, e i sacramenti in generale, il senso del trovarsi insieme, il valore del vivere queste dimensioni in famiglia, ha cambiato la visione della pastorale».

Qual è la caratteristica, l’attenzione che ha scoperto dei vicentini e che più l’ha piacevolmente sorpresa?

«A livello di comunità ecclesiale direi la missionarietà e a livello civile la imprenditorialità, fatta da numerose imprese piccole, medie e grandi che hanno costituito il tessuto della comunità locale ».

Può raccontarci i fatti che più sono stati per lei motivo di gioia e di conforto?

«Un primo motivo di gioia che è stato e continua a essere si concretizza nell’incontro con diverse persone che mi chiedono un accompagnamento spirituale. Lì si realizza un autentico scambio su come vivere la vita da credenti in Cristo, fedeli al suo Vangelo. È un incontro, quasi mano nella mano, verso la comunione sempre più piena, con il Signore e con la storia di tanti fratelli e sorelle. Ricordo poi alcune giornate vissute insieme con i presbiteri, la comunità diaconale, i consacrati e le consacrate, con il popolo di Dio, ad esempio: le ordinazioni dei diaconi e dei preti, i ritiri spirituali, la s. messa del Crisma. Un motivo quotidiano, feriale di gioia profonda è la s. messa delle 8 in Cattedrale, con quello che considero la ‘mia piccola famiglia’. Ci sono alcuni canonici che concelebrano e poi una trentina di fedeli che vi partecipano. Si inizia la giornata insieme, radunandosi per chiedere perdono dei peccati, ascoltare la Parola di Dio, partecipare alla comunione eucaristica, per entrare nelle fatiche del lavoro e negli impegni della vita. Un grande motivo di gioia è stata la visita pastorale e poi l’incontro domenicale con le comunità cristiane, in modo particolare, con i cresimandi, nella celebrazione del Sacramento della Confermazione».

Quali i passi come Diocesi siamo chiamati a compiere nel futuro?

«Nei prossimi cinque anni ci attende una forte esperienza sinodale, chiesta a tutte le Diocesi italiane da papa Francesco. Non faremo un sinodo ma vivremo un ‘cammino sinodale’. Da settembre a dicembre ci sarà l’avvio di questo ‘processo sinodale’ che si concluderà con il giubileo del 2025. Si tratta di coinvolgere dal basso l’intero popolo di Dio e tutti gli uomini e donne di buona volontà per un ascolto attento, ricercando insieme e arrivando a delle scelte pastorali. Da questo punto di vista il percorso sinodale si caratterizzerà per un cambiamento totale di prospettiva: si parte dall’ascolto, dalla ricerca e dalla proposta, cercando di coinvolgere il più possibile, su alcune ‘questioni cruciali’, il Popolo di Dio».