Bertilla Antoniazzi verso la beatificazione: una vita divenuta incessante preghiera

Il 25 marzo in Cattedrale si chiude il processo diocesano

 
 Mercoledì 25 marzo alle 19 in Cattedrale, nel giorno della Solennità di Maria Annunciata titolare della chiesa madre della diocesi, il vescovo mons. Pizziol chiuderà la fase diocesana della causa di beatificazione di Bertilla Antoniazzi. Nata a San Pietro Mussolino nel 1944 e morta ventenne a Vicenza nel 1964, Bertilla «rappresenta – dice il vescovo -uno degli ultimi, più recenti anelli di quel rosario di santità che, dal Settecento fino a noi, attraversa ininterrottamente il cammino della Chiesa vicentina».
 
 Una giovane donna, che viene dalle periferie della diocesi, da una comunità piccola, semplice e viva, cresciuta in una famiglia numerosa, dall’animo semplice e limpido, pochi anni di scuola, il cammino tra le giovanissime dell’Azione Cattolica e con l’Unitalsi, uno sguardo premuroso e attento verso gli altri e verso il mondo. È questa la figura che, lo speriamo, potrà diventare beata. Si chiama Bertilla Antoniazzi, è nata nel 1944 a San Pietro Mussolino ed è morta vent’anni dopo a Vicenza, per gravi problemi di cuore.
 
«Nella sua semplicità, questa giovane custodisce uno spessore spirituale molto vasto – afferma il postulatore don Giandomenico Tamiozzo -. Bertilla faceva “il lavoro dell’ammalata”, ha preso su di sé un compito che nessuno vorrebbe. È una ragazza uscita dalle nostre parrocchie, senza tante pretese, semplice, che proveniva da una famiglia normale del suo tempo, che ha coltivato la fede a partire da una quotidianità vissuta in modo autentico. Bertilla ci dimostra anche che non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per essere santi; al contrario, ci insegna che per ogni età c’è una forma di santità che ciascuno può ed è chiamato a vivere. La sua malattia e la serenità con cui l’ha
affrontata hanno fatto scuola. La preghiera è stata la sua medicina».
 
«I suoi scritti si riducono quasi in toto a ricorrenti intenzioni di preghiera, che ella si proponeva di giorno in giorno: per i familiari, per sacerdoti e religiosi, per la conversione dei peccatori, per le anime del purgatorio, per le missioni e gli infedeli, per i poveri e gli ammalati, per la pace, perché Dio le illumini la via, per la Chiesa (da notare è il riferimento al Concilio ecumenico Vaticano II che si stava svolgendo negli anni della sua adolescenza), per il papa e le sue intenzioni, per la sua parrocchia, per la conversione della Russia, per la sua guarigione e per la sua vocazione – osserva don Andrea Dani, che ne ha studiato gli scritti spirituali. Nello stile umile di Bertilla assume grande significato questa particolare dedizione agli altri, una predisposizione interiore a prendersi cura, a fare della propria vita spirituale uno slancio continuo di apertura a Dio, al prossimo, alla Chiesa».
Tutto, nella vita di Bertilla, diviene preghiera. Tanto che la ragazza arriva ad annotarsi su uno dei suoi fitti quadernini: “Sono proprio fortunata, così ammalata Gesù mi vuole più bene, e anch’io attraverso la malattia ho imparato ad amarlo di più”. Ciò che le sta a cuore non è ottenere la guarigione, le sue preghiere non sono mai una richiesta di grazia per sé. Anche quando è in pellegrinaggio a Lourdes, nel 1963, non chiede alla Madonna di toglierle la malattia, perché “il lavoro dell’ammalata lo faccio volentieri”. Le affida, invece, un desiderio: “Farmi santa, voglio farmi santa”.

«Dagli otto anni in cui si ammalò ai diciannove in cui morì – commenta Luigi Grandi, uno dei sostenitori più vivaci della causa di beatificazione di Bertilla -, i numerosi testimoni, che l’hanno conosciuta e frequentata, hanno giurato di non averla mai sentita lamentarsi della sua vita di ammalata».

Margherita Scarello

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