Corresponsabilità e/o sinodalità? – Pagina 3

Dei termini da "rigorizzare" per non essere fraintesi

 
Riporto da ultimo un lungo passo, tratto da Giuliano Zanchi, che nella sua rilettura del ‘risorgimento laico’, offre una analisi perspicace e altrettanto critica circa l’impiego pastorale dei laici nel post-concilio:Guardando però a come la foresta dell’impegno parrocchiale è variamente cresciuta in questi decenni si possono vedere anche i limiti e gli inconvenienti di quel rigoglio. Il risveglio pastorale dei laici è avvenuto appena dopo il Concilio in un clima di grandi aspettative. Esse riguardavano, in particolare, il desiderio di una reale autonomia partecipativa e l’attesa di una tangibile efficacia di un così intenso impegno pastorale. Queste aspettative si sono però presto tramutate in disillusione. Alcune in risentimento. Verso l’istituzione alla fine invincibilmente gerarchizzata o verso il mondo alla fine inguaribilmente impenetrabile.Il grande movimento comunitario dei primi decenni ha come lasciato il posto all’inerzia di una pastorale alquanto meccanica, routinaria, affaccendata. Non senza tentazioni retrovisive. Molto di questo clima di disillusione va compreso alla luce di un processo di scristianizzazione che ha complicato il compito pastorale e spento gli entusiasmi. Tuttavia bisogna interrogarsi sulla permeabilità emotiva e progettuale delle comunità nei confronti dei processi sociali in atto. Il vero disorientamento delle nostre comunità è forse dovuto al fatto che esse non hanno saputo interpretare il profondo mutamento culturale e antropologico che andava cambiando la realtà. Non si trattava di spendere maggiori energie operative. Serviva una azione di vera e propria reinterpretazione culturale e spirituale del modo di essere cristiani nel mondo: in termini di contenuti e di linguaggi, di stili di vita e di azione, ma anche di luoghi in cui elaborare questo compito di necessario discernimento. Il laicato parrocchiale si è messo all’opera in una Chiesa che andava nuovamente irrigidendo l’involucro della propria proposta dottrinale, e immaginando la società e il mondo, la cultura e il costume, solo come un fronte esterno in cui farla valere. Il grande lavoro dei laici nelle nostre comunità, per quanto così generoso, appassionato, esemplare anche per molti ministri ordinati, era destinato a contrarsi nuovamente nella sua valenza operativa. La presenza dei laici nella Chiesa è rimasta sostanzialmente esecutiva.Questa deriva operazionale della presenza dei laici ‘pastorali’ ha prodotto anche una conseguenza assolutamente decisiva per il compito di pensare l’identità del credente laico. I laici non direttamente impegnati nella pastorale rischiano di rimanere invisibili. Rischiano, più ancora, di non essere ritenuti decisivi per la costruzione della vita comunitaria o addirittura di non essere considerati sufficientemente interni al perimetro di una accettabile coscienza cristiana. La circostanza può generare fenomeni di risentimento interno. Non tanto da parte degli invisibili quanto piuttosto di quegli impegnati, che identificano l’impegno pastorale con l’adesione di fede. Il lavoro pastorale si trasforma in una infernale macchina di reclutamento all’operatività che brucia la percentuale più alta delle energie pastorali a disposizione, finisce per gerarchizzare le forme di appartenenza alla comunità e rende infine indiscernibile – ed è la perdita più grave – l’apporto del credente laico che incarna la propria testimonianza evangelica nei compiti della vita quotidiana. Mancanza incresciosa. Perché è sulla scena di questa traduzione spontanea e immediata che la testimonianza per il Regno acquista la dignità di compito ordinario.L’identificazione dei cosiddetti ‘impegnati’ con la comunità mostra – fra tanti altri segni – come le grandi macchine parrocchiali siano costruite spesso come catene operative, virtuose a volte per la loro efficienza nella trasmissione di comando, negligenti tuttavia sul fronte dello scambio intraecclesiale. (Zanchi 2015, p. 52–54).Due sono a mio avviso le sottolineature degne di nota. La prima è che i laici sono stati impegnati nel post-concilio in forme essenzialmente esecutivo-operative, senza che avesse luogo con loro e grazie a loro una «vera e propria reinterpretazione culturale e spirituale del modo di essere cristiani nel mondo». Di qui quella che l’autore designa come la «deriva operazionale della presenza dei laici ‘pastorali’», che se da una parte può aver favorito lo sviluppo di un prezioso ‘cristianesimo sociale’, dall’altro ha frenato l’emergere di un altrettanto prezioso ‘cristianesimo culturale’ [16].La seconda è che il «reclutamento all’operatività» ha via via sancito una distinzione, per lo più tacita o dissimulata, tra gli «impegnati» e gli «invisibili», cioè fra coloro che partecipano attivamente alla conduzione e alla gestione della comunità cristiana e coloro che invece non svolgono alcun servizio al suo interno. Con la conseguenza riprovevole che si è prodotta –in maniera tendenzialmente irriflessa o inconscia – una sorta di equivalenza tra qualità personale di fede e impegno ecclesiale: cristiani in senso proprio sarebbero solo gli impegnati in servizi ecclesiali!b) Contro-fattualità esperienzialeD’altronde, la concreta esperienza di molti laici, specie di quanti sono direttamente coinvolti nei cosiddetti organismi di partecipazione ecclesiale, è deludente. La delusione nasce dall’esperienza ricorrente di uno scarto incolmabile tra la proclamata ‘corresponsabilità’ laicale e la effettiva ‘corresponsabilità’ vissuta [17].Radice di tale scarto può essere certamente il clericalismo. Anche il convegno ecclesiale diocesano di Vicenza (1998-1999), che a dieci anni dal Sinodo ha tentato una valutazione dei progressi fatti, ha denunciato il perverso nesso tra clericalismo e mancata ‘corresponsabilità’ laicale:Il “clericalismo”: il ministero ordinato è essenziale alla vita della Chiesa, e nella nostra Chiesa sono ancora vive e articolate le aspettative del popolo di Dio nei suoi confronti. Può accadere, però che esso sia pensato e vissuto da molti come una funzione “sacrale” che separa dalla vita e dai fratelli, e che rischi di modellare e ritmare su di sé la vita ecclesiale. In tale caso:- la presenza e la funzione dei presbiteri diventa il centro totalizzante della vita comunitaria, e mortifica le vocazioni e i carismi del popolo di Dio, e dei laici in particolare;- i laici trovano comodo e rassicurante delegare ai presbiteri ogni responsabilità, offrono collaborazione ma non assumono corresponsabilità, tendono a vedere la propria realizzazione nella conquista di ruoli ecclesiali e non nell’animazione evangelica dei luoghi e delle esperienze della vita quotidiana;- si indebolisce il rapporto fra la Chiesa e il mondo, perché si sottolinea la separazione e non la condivisione, e i laici non sono il tramite che collega la Chiesa al mondo e il mondo alla Chiesa. (Diocesi di Vicenza 2001, p. 64)Stupisce tra l’altro nei testi di quel convegno soprattutto il resoconto delle coppie di sposi, che lamenta la mancanza di ‘corresponsabilità’ creativa, l’unica che farebbe invece crescere soggettività credenti:* I preti svolgono frequentemente un ruolo decisivo e determinante nella conduzione delle parrocchie, perciò, i laici si sentono deresponsabilizzati e, comunque, non aiutati a diventare “soggetto”. Qualche gruppo parla di “potere clericale”. […]* Una difficoltà che i laici riscontrano nella vita della Chiesa è che essa sembra non aver ancora capito che cosa significhi “camminare insieme”, dal momento che non ci son luoghi reali in cui si pensi e si decida insieme. Molti sentono l’evangelizzazione come sollecitazione a fare tutti le stesse cose, senza che siano valorizzate e rispettate le coscienze e i carismi di ciascuno. Le comunità sono ancora troppo “gerarchizzate” e dipendenti dalla guida pastorale. [Sintesi conclusiva del primo seminario, 6-7, 20 novembre 1998; Coppie di sposi] (Diocesi di Vicenza 2001, p. 47)Dietro a siffatte difficoltà, che sono sotto gli occhi di tutti e hanno causato fenomeni di rassegnazione o disimpegno, sta però una questione più radicale: è davvero ecclesiologicamente sostenibile e compatibile il concetto di ‘corresponsabilità’, così come viene comunemente inteso? Se corresponsabilità – nell’ambito della nostra tradizione civica, cioè alla luce della usuale pratica sociale e politica e delle comuni categorie concettuali e linguistiche – vuol dire capacità e necessità di rispondere insieme di qualcosa, per il fatto che lo si è pensato-scelto-attuato insieme, com’è allora articolabile siffatta nozione di ‘corresponsabilità’ con la struttura gerarchica della chiesa, ossia con la presenza costitutiva di un’istanza decisionale, che ha la facoltà e la libertà di emanciparsi da dinamiche di puro consenso maggioritario? Non è insomma che si dia uno scompenso disgraziatamente insanabile tra l’appello (ridondante) alla ‘corresponsabilità’ da un lato e dall’altro la (inevitabile) rivendicazione di una impraticabile ‘corresponsabilità’ piena o totale, connessa alla natura gerarchica della comunione ecclesiale?Ebbene, ho come l’impressione che l’appello vuoto (giuridicamente non tradotto) e impossibile (teologicamente aporetico) alla ‘corresponsabilità’ sia tendenzialmente fuorviante e ultimamente controproducente: una sorta di boomerang che ha creato molte false attese ed ora presenta il conto salato di una irreversibile disaffezione.5. CONCLUSIONE E RILANCIOAlla luce della analisi proposta, il termine ‘corresponsabilità’ non appare così congruo come ci si potrebbe aspettare. Da un lato è stato vittima di una deriva ‘pastoralista’, nel senso che è stato per lo più declinato in chiave intraecclesiale, nei termini cioè di un investimento laicale, prevalente se non esclusivo, nella conduzione e gestione interna della vita di chiesa. E con ciò ha subito un deprecabile impoverimento di significato. D’altro lato non è forse mai stato definitivamente sottratto alla morsa dell’ideologia ‘democraticista’ [18], ingenerando così una incredibilmente dannosa tensione tra sperata democraticità paritaria assoluta e imprescindibile costituzione gerarchica della chiesa. In parole più semplici, l’utilizzo di tale termine evoca immediatamente un insieme di pratiche e procedure, ma anche di corrispondenti aspettative, simbologie ed emozioni, che non sono facilmente onorabili in ambito ecclesiale: non tanto perché non si voglia, quanto piuttosto perché non è consentito dalla specifica natura della chiesa.La domanda che ora incalza è dunque la seguente: vale la pena fare uso di un termine che presenta bensì un innegabile valore, ma abbisogna di essere talmente precisato in vista del suo impiego ecclesiale, ritagliandolo sensibilmente rispetto all’uso nel lessico comune, da apparire persino svuotato nei suoi connotati fondamentali? Conviene valersi del vocabolo ‘corresponsabilità’, sapendo che è da fare uno sforzo non da poco per delimitarne il corretto perimetro ecclesiale di applicazione? O non è forse preferibile abbandonarlo, senza tuttavia perderne l’istanza soggiacente, che appartiene al cuore dell’esperienza cristiana, vale a dire l’idea di chiesa-comunione e di chiesa-popolo di Dio, fondata sulla comune dignità battesimale? E in quest’ottica, non è che il concetto di sinodalità offra magari maggiori chanches?  

[16] Per ‘cristianesimo culturale’ è da intendere in prima istanza non già un cristianesimo colto, dotto o acculturato, né tantomeno un cristianesimo ‘catechizzato’ (nel senso di attrezzato di conoscenze basilari circa i fondamenti della fede cristiana). Non che tutto questo non sia importante né che non se ne avverta diffusamente la carenza! Per ‘cristianesimo culturale’ è invece da intendere un cristianesimo capace di abitare il presente, recependo criticamente le istanze della cultura-ambiente dove è situato; in grado cioè di assumerle, vagliarle e farle interagire con il nucleo essenziale dell’esperienza cristiana, allo scopo di plasmarne una forma vivibile e praticabile nell’oggi. È ovvio che una operazione di questo genere, oltre che complessa e a lungo termine, ha anzitutto un profilo non già teorico, bensì pratico. Né può essere svolta da pochi. È al contrario debitrice dell’esperienza di tutti coloro che in qualche modo si professano cristiani e tentano di vivere la propria fede nelle condizioni più comuni del vivere.
[17] Scrive Marco Vergottini a proposito dei consigli pastorali parrocchiali: «…la vicenda degli organismi di partecipazione ecclesiale, e segnatamente dei consigli pastorali diocesani e parrocchiali, costituisce un test probante per misurare il divario fra l’investimento di risorse simboliche sul piano del sentire ecclesiale – quanto a consapevolezza e attese – e la qualità non proprio esaltante della pratica effettiva, laddove lentezze, crisi e delusioni non tardano a manifestarsi» (Vergottini 2002, p. 57).
[18] «Le chiese si trovano inermi di fronte a quella tendenza ad ampliare e a potenziare ideologicamente il concetto di democrazia, che si esprime nello slogan della “democratizzazione”. Essendosi per lungo tempo opposte alla democrazia, avendo rimosso o avendo trascurato il problema, il loro bisogno di recupero è enorme, e così assieme alle teorie giuste della democrazia consumano anche quelle sbagliate. E poiché non dispongono di una “dottrina del nucleo” della democrazia (politica), riesce loro difficile vedere la richiesta di una democratizzazione di tutti i settori della società per quello che essa è: un programma sostanzialmente totalitario. E così una cattiva coscienza non del tutto ingiustificata e una apertura al mondo lodevole nella sua intenzione si accompagnano a una tendenza teologica pericolosa a spiritualizzare realtà politiche. Il risultato è che qualche corrente teologica oggi esalta frettolosamente modelli democratici radicali, socialistici, in breve emancipativi di democrazia, acriticamente adottati, con la conseguenza che termini come libertà, autonomia, emancipazione assumono un significato quasi religioso, mentre d’altra parte nel pensiero teologico la democrazia politica scivola in una lontananza sempre più astratta» (Ratzinger e Maier 2005, p. 63).
 
 

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