Corresponsabilità e/o sinodalità? – Pagina 6

Dei termini da "rigorizzare" per non essere fraintesi

 
b) Il ministero gerarchico quale presidenza ‘nel’ e ‘del’ discernimento comuneIl fatto, che i due sacerdozi siano ordinati l’uno all’altro, vieta di pensarli come autonomi o indipendenti. Suggerisce soprattutto di ripensarli ciascuno rispetto all’altro. La lettura di Dario Vitali, che lamenta soprattutto l’autoreferenzialità del sacerdozio ministeriale, è certamente condivisibile [37]. L’aspetto più stimolante è però forse un altro. E cioè l’indicazione, già incrociata all’inizio nella citazione dalla Conferenza episcopale francese, che la sinodalità ecclesiale non è affatto generica, nel senso di indifferenziata, bensì diversificata [38]. Quello ecclesiale è dunque un camminare-insieme, dove il pastore esercita uno specifico e irrinunciabile compito di guida [39]. Questo si configura però concretamente solo nella effettiva e mai-definibile-in-partenza interazione con gli altri carismi e ministeri di natura battesimale [40].In tal caso anche il ministero ordinato figura come particolare carisma con una specifica autorità, all’interno di un insieme di molti altri carismi con specifiche autorità. Una traduzione lusinghiera di ciò può essere rinvenuta in un passaggio di Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara dal 2012, tratto da un intervento al Convegno teologico per l’inizio dell’anno accademico del seminario e dell’Issr di Novara:Ciò che qui ci interessa suggerire per le comunità cristiane è che la nascita di nuovi “ministeri” ecclesiali non può avvenire per una sorta di accanimento terapeutico su alcuni che vengono quasi precettati per il servizio alla comunità; o, rispettivamente, non può essere attribuita ad altri che comunque sono da sempre presenti nella comunità e appartengono al panorama immutabile di una parrocchia. Fermarsi qui comporta inevitabilmente una concentrazione dei ministeri su poche persone che fanno tutto, riproduce ancora lo schema “direttivo” che attraversa molta parte della pastorale. Intendo per “direttivo” quel modo di procedere nell’agire pastorale (nell’annuncio, nella celebrazione, nella carità) che viene dall’alto e si trasmette ai livelli inferiori: così può avvenire dal centro alla periferia della diocesi, dal sacerdote al laico, ma quasi sempre per delega, per cooptazione, per una decisione pastorale a cui non partecipa chi deve poi tradurla in pratica. Bisogna invertire la rotta e pensare a un modo di procedere “comunionale”, il quale pensa all’agire pastorale come un’opera di discernimento comune di sacerdoti e laici, di istanze superiori e periferiche, che si pongono insieme il tema della praticabilità della vita cristiana nel momento presente. (Brambilla 2014, p. 11)Trovo suggestiva e carica di positive implicazioni soprattutto l’ultima raccomandazione, quella di pensare all’agire pastorale come un’opera di discernimento comune, dove il fine è non già la gestione di una concreta comunità locale o di più comunità, bensì la praticabilità della vita cristiana nel momento presente. Ciò significa che il punto di convergenza dei comuni sforzi riflessivi e operativi – il ‘luogo’ per così dire dove è possibile e necessario ‘camminare insieme’, e dunque vivere la sinodalità – è non tanto la mera ‘conduzione’ o ‘gestione’ ecclesiale, finalizzate troppo spesso alla preservazione o prosecuzione della consueta forma di chiesa. Tale punto di convergenza risiede invece e più fondamentalmente nella determinazione condivisa dell’identità cristiana odierna: come essere cristiani oggi? come poter vivere il cristianesimo nel tempo presente? Quale forma di cristianesimo e quale forma di chiesa sono oggi praticabili?In quest’ottica la funzione di presidenza del ministero gerarchico consiste non tanto nell’attuare un discernimento su altri o al posto di altri, nemmeno nel caso in cui abbia luogo il migliore ascolto possibile:Ovviamente è impossibile pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta. Al contrario, dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale. E questo discernendo con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente. (Francesco 2016)Presidenza accorta è piuttosto quella che favorisce il discernimento comune, entrando nel vivo del processo di ricerca, confronto, discussione e dibattito, senza riservarsi solamente l’ultima parola. In tal senso si deve parlare di una presidenza ‘nel’ discernimento comune. Spetta nondimeno al ministero gerarchico anche qualcosa di specifico, vale a dire l’autenticazione evangelica del discernimento comune. È come se il ministro, in virtù della sacramentalità del ministero gerarchico, fosse chiamato a convalidare la bontà del discernimento comune, poiché giudicato conforme all’esperienza apostolica di fede. In tal senso si deve parlare di una presidenza non solo ‘nel’ ma anche ‘del’ discernimento comune.III. CONCLUSIONELa riflessione svolta è stata scandita da un doppio passo. In primo luogo si è misurata con il concetto di ‘corresponsabilità’, tentando di saggiarne la pertinenza in relazione alla natura peculiare della chiesa di Gesù Cristo. L’esito va nella direzione di una certa qual riserva e raccomanda alquanta circospezione, giacché l’impiego ecclesiale del concetto in questione non è affatto esente da riduzioni o malintesi. L’eventuale sospensione o abbandono di tale concetto non equivale però a rinunciare alla preziosissima istanza soggiacente di una comune differenziata responsabilità per la fede testimoniale; mette invece in conto la ricerca di una nozione che sia maggiormente in grado di custodirne ed esprimerne il valore.A reggere il secondo passo è stata la supposizione che la nozione di sinodalità – riabilitata al rango di nota ecclesiae dalla prassi e dalla riflessione di papa Francesco e segnalata come «cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» – presenta i requisiti fondamentali per ‘succedere’ a quella di corresponsabilità. L’attenzione si è soffermata in particolare su un duplice aspetto del discorso commemorativo di papa Francesco: il fatto che il camminare-insieme da un lato rappresenta una dimensione costitutiva della chiesa e dall’altro offre la cornice interpretativa adeguata per ricomprendere il ministero gerarchico.L’dea sottesa alla nozione di sinodalità – una comune differenziata responsabilità per la fede testimoniale – ci è offerta felicemente compendiata nella formula dell’episcopato francese: «Nella Chiesa popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo, tutti fanno tutto, ma non allo stesso modo né allo stesso titolo». L’insistenza è doppia: tutti fanno tutto, cioè tutti sono implicati e coinvolti, senza esclusioni o privilegi. A dire che tutti hanno qualcosa da dire in ordine alla forma testimoniale della fede, cioè al modo in cui oggi può essere vissuto il cristianesimo. D’altra parte tutti fanno tutto in maniera differenziata, cioè ciascuno fa sì tutto, ma lo fa in maniera diversa dagli altri a seconda del carisma personale, dello stato di vita, dello specifico ministero.Ebbene, stabilire concretamente quali siano tali modi differenziati è possibile farlo per via teorica solamente in modo molto astratto. È invece l’effettiva prassi di un agire comune e condiviso a far emergere concretamente le peculiarità specifiche di ciascun attore. Ciò significa che riflettere sulla sinodalità ecclesiale ha certamente un indubbio valore, ma non è che la pratica di un credere-agire condiviso a consentire da un lato l’effettiva bilanciatura dei diversi carismi e ministeri, disegnandone più dettagliatamente il profilo, e a tracciare ultimamente dall’altro la via sinodale per la chiesa del terzo millennio.DAL POZZOLO ALESSIO

 

[37] «…se il ministero ordinato è relativo al Popolo di Dio, è a partire dal sacerdozio comune che bisognerebbe disegnarne il profilo. A ben vedere, è paradossale che tale logica non incida minimamente nei progetti e nei percorsi di formazione dei candidati al sacerdozio, quando il dettato conciliare fa del mutuo riferimento di sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale o gerarchico il criterio che regola tutta la vita della Chiesa. La scelta di prescindere da questo vincolo torna a detrimento non solo del sacerdozio comune, che rimane lettera morta, ma anche del ministero ordinato, che continua ad essere pensato in una sorta di logica autoreferenziale. Per contro, è il funzionamento della relazione stessa che porta a precisare la fisionomia dei soggetti in gioco» (Vitali 2011, p. 45).
[38] Cfr. la formula già citata dal documento della Conferenza Episcopale Francese del 1975: «Nella Chiesa popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo, tutti fanno tutto, ma non allo stesso modo né allo stesso titolo. I semplici fedeli operano in forza del loro battesimo e dei doni di natura e di grazia messi a servizio della comunità (carismi). I ministri consacrati mettono in opera quegli stessi doni ma, in senso specifico, agiscono anche in forza della loro ordinazione sacramentale» (Conferenza Episcopale Francese 1975, p. 39). Congar descrive ciò attraverso il concetto di corresponsabilità differenziata: «Congar riprende con la sua autorità le idee fondamentali dell’assemblea. Così egli parla di «corresponsabilità differenziata», cioè, aggiunge, «organica, in cui non tutti hanno lo stesso grado e la stessa forma di responsabilità»» (Frosini 2014, p. 66).
[39] Cfr. Dianich 2002.
[40] Dianich 2005, p. 59.
 

 

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