Don Adriano: uomo, prete e giornalista dal grande cuore

Il ricordo di don Alessio e di Alberto Schiavo

 
 Ho avuto la fortuna di essere forse l’ultimo “discepolo” di don Adriano Toniolo. Era il 2006 quando il vescovo Nosiglia mi chiese di affiancarlo all’Ufficio Stampa diocesano. Il problema era semplice: i comunicati stampa non potevano più essere scritti con la mitica Olivetti rossa e inviati via fax, e don Adriano del computer proprio non ne voleva sapere. Così iniziammo a trovarci tutti i mercoledì mattina, per due anni: lui dettava e io scrivevo e inviavo le mail. Arrivava in ufficio un po’ trafelato dopo aver fatto il suo giretto negli uffici pastorali o di curia: “le notizie vanno cercate – mi diceva – a volte anche estorte. Non si può fare il giornalista restando sempre seduti ad una scrivania”. Aveva il fiuto di un segugio per le notizie. In quei due anni don Adriano mi ha insegnato moltissimo: a scrivere in modo corretto un comunicato stampa (“le cose fondamentali devono esserci nelle prime due righe”); a scrivere “potabile” e non in gergo ecclesialese; ma soprattutto a non prendermi troppo sul serio. Un po’ alla volta don Adriano mi ha presentato moltissimi giornalisti delle testate locali e ha insistito perchè facessi tutta la trafila per iscrivermi all’Ordine dei Giornalisti. Di solito, verso le 11 della  mattina mi salutava: aveva sempre qualche missionario, convento di clausura o famiglia bisognosa da visitare e a cui portare qualcosa. Nel 2008, prima ancora che la Diocesi ufficializzasse il passaggio di consegne, una mattina don Adriano mi disse “ora sei pronto, puoi arrangiarti tu”. E partì con il suo motorino e il suo sorriso che sempre donava serenità. Grazie, don Adriano!
 
don Alessio Graziani
 
La notizia della morte di don Adriano mi ha fatto esplodere in testa un vortice di ricordi che hanno segnato profondamente la mia vita. Confido nella sua indulgenza, quando leggerà il pezzo, come quando correggeva i miei primi articoli, di aspirante giornalista che proprio lui nel ‘72 ha voluto alla “Voce” pescandomi dal gruppo di giovani che frequentava la parrocchia di Costabissara dove da poco era arrivato come cappellano.
Impaginare, trovare le foto,  fare i titoli, correggere le bozze, organizzare i collaboratori, era dura fare le otto pagine di giornale in due, ma lui – che si divideva tra giornale parrocchia e scuola – “recuperava” di notte scrivendo di getto come pochi giornalisti sanno fare. Come il grande Montanelli, che portava ad esempio, rendeva piacevole la lettura con un linguaggio semplice – “ci leggono anche le vecchiette con la 3a elementare” -, centellinando aggettivi e avverbi e usando la sua sottile ironia per “addolcire” verità che non sapeva tacere.
Quando nell’‘80 divenne direttore, certi corsivi più che in punta di penna erano scritti con l’accetta, e non conoscevano limiti di livello d’autorità – prima di essere direttore non li avrebbe scritti per non mettere in imbarazzo mons. Giovanni Sartori del quale aveva la massima stima – . Fuori dagli schemi, e qualche volta sopra le righe, la sua schiettezza verbale e scritta aveva molti estimatori, ma gli creò anche nemici.
Sotto la sua direzione il giornale fece un salto di qualità passando al formato tabloid e aumentando la fogliazione fino a 36 pagine, ma soprattutto potenziando la redazione e dando maggiore spazio agli approfondimenti e all’informazione locale.
Si è sempre battuto, come consigliere regionale dell’ordine dei giornalisti e come delegato della Federazione triveneta dei settimanali cattolici perché fosse riconosciuta ai settimanali diocesani la dignità che meritano e contemporaneamente la professionalità dei giornalisti che vi lavoravano. Di carattere sanguigno e irrequieto, aveva grandi capacità ma non la diplomazia, né l’ambizione per aspirare a cariche ecclesiastiche. Finito il quinquennio di direzione e “preparato” professionalmente il successore don Lucio Mozzo, tornò ad insegnare religione prima che nell’’86 Mino Allione, direttore del Giornale di Vicenza, lo chiamasse a far parte della redazione.
Era un sacerdote, ma prima ancora un uomo, che conosceva tante persone “importanti”, ma che amava vivere tra la gente della “sua” Costabissara. Sapeva ascoltare e capire i giovani – ancora negli anni 70 con quelli di Costabissara fondò  un giornalino, mentre nella “Voce” diede spazio ai ragazzi – quanto i vecchi con i quali passava pomeriggi a farsi raccontare storie di vita passata, magari davanti ad un piatto di pane e sopressa e a un buon bicchiere di vino.
Disponibile e di una generosità disarmante, aveva anticipato di vent’anni i “centri di ascolto”. In redazione come in parrocchia passava un caleidoscopio incredibile di umanità che sapeva di trovare non solo la parola di conforto ma un aiuto concreto: lavoro, pensione,  liti in famiglia, il figlio scapestrato e via dicendo, a tutto trovava una soluzione. Chiedere per se stesso mai, ma per gli altri ci metteva la faccia.
Non aveva il senso del possesso e del denaro, tanto riceveva tanto dava e il portafoglio era sempre vuoto. Colpito dal “mal d’Africa”, assieme al gruppo missionario del paese, non cessò mai di sostenere i missionari comboniani sparsi per il mondo in ogni loro esigenza.
Raggiunta la pensione continuò a scrivere,  ma finalmente di ciò che lo appassionava: la natura e la storia, la vita dei santi e le tradizioni della civiltà contadina. “Col cantare il tempo passa”, aneddoti per ogni giorni dell’anno, e “Storia di Costabissara” le pubblicazioni più note alle quali si aggiunge una serie di interessantissimi libretti dedicati a Santi, oratori e chiese, erbe e piante medicinali e commestibili, delle quali era anche appassionato raccoglitore.
  Era fuori dagli schemi, ma non ha mai smesso di essere prete. Con la sua penna, il profondo senso della carità e dell’amicizia,  ha dato molto alla Chiesa vicentina.
Alberto Schiavo