Don Roberto Repole alla Scuola del Lunedì: la sinodalità è questione “teologica”

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 Terzo incontro proposto dalla Formazione permanente del Clero sulla sinodalità, che don Roberto Repole (docente di Teologia sistematica a Torino e presidente dell’Associazione Teologi Italiani) non ha esitato a definire “dimensione costitutiva della Chiesa”.  Don Repole ha innanzitutto ripercorso lo sviluppo della struttura sinodale della Chiesa nel corso dei secoli, fin da quel primo “concilio di Gerusalemme” che determinò di fatto  la modalità canonica di affrontare le problematiche legate alla vita ecclesiale. “La comunità primitiva doveva decidere se l’accesso dei pagani al cristianesimo dovesse o meno passare per l’ebraismo. La risposta arrivò da una riunione che vide riuniti insieme la comunità, gli apostoli e i loro collaboratori. Una riunione in cui ci furono la preghiera, la discussione, il discernimento e la decisione”. In tutto il primo millennio cristiano la sinodalità viene vissuta nella consapevolezza che ogni cristiano è portatore di un carisma per la gloria di Dio e il bene della comunità. La Chiesa è concepita come “corpo di Cristo” al modo del corpo eucaristico. I problemi iniziano in epoca imperiale quando il riferimento diventa il “corpo sociale” e di conseguenza la chiesa viene a strutturarsi in modo gerarchico. I sinodi divengono allora spesso paradossalmente non luoghi di confronto e di decisione, ma di controllo e di comando di chi detiene l’autorità rispetto alla base. Nell’Ottocento gli studi teologici e patristici recuperano la visione antica della sinodalità che è poi al centro del Concilio Vaticano II. Certo è che ogni epoca e stagione ecclesiale ha vissuto la sinodalità condizionata dal clima sociale e culturale del proprio tempo. Oggi viviamo in un contesto di fine della cristianità e di secolarizzazione. La secolarizzazione non è solo calo della pratica religiosa, ma è affermazione dell’autonomia dei vari ambiti della vita sociale rispetto alla dimensione religiosa; è costituirsi di un clima sociale in cui credere non è più la norma, ma una possibilità con pari cittadinanza a quella uguale e contraria di non credere; è affermazione delle singolarità individuali rispetto ad un modello uniforme di vivere e di pensare. D’altra parte il grande teologo Congar ebbe a dire che l’unità nella chiesa non può essere concepita come uniformità, ma come unità plurale. Dio distribuisce infatti doni diversi e, essendo trascendente, non può che rivelarsi egli stesso che nella pluralità. Quale volto di Dio riflette e annuncia dunque una Chiesa non sinodale? Nel contesto di oggi è ancor più urgente recuperare a pieno uno stile sinodale per annunciare efficacemente il Dio di Gesù Cristo. Certo la sinodalità della Chiesa non deve essere intesa come democrazia. Sarebbe una riduzione. Ma alcuni tratti “democratici” fanno parte anche del vissuto della Chiesa. Come ha sottolineato il pensatore Franco Riva , la democrazia consiste nel “vivere senza padroni” e nello stringere un patto di solidarietà sociale che ci porta ad “essere responsabili gli uni degli altri”. Questo deve avvenire anche nella comunità ecclesiale. Ma la sinodalità è più di questo perché il riconoscimento di una trascendenza e il vivere tenendo un orizzonte escatologico sullo sfondo ci porta ad evitare che il dialogo si estenui su se stesso. Don Repole ha infine tratteggiato alcune sfide che la Chiesa di oggi dovrebbe affrontare perché la sinodalità non si riduca a semplice slogan: creare strutture diverse a seconda dei diversi luoghi e culture in cui la Chiesa vive; riconoscere maggiormente i diversi carismi oltre i ministeri ordinati; non ridurre la sinodaltà alla celebrazione dei sinodi, ma attuare uno stile e dei processi sinodali; individuare dei criteri che permettano di valutare quali tra i battezzati hanno un’autentica coscienza ecclesiale; ripensare la figura del Vescovo come colui che presiede il presbiterio e il collegio dei diaconi.

Don Alessio Graziani 
 
 
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