Due missionari saveriani a Dacca: padre Tobanelli e il vicentino Garello raccontano il loro Bangladesh

 
La recente strage a Dacca in Bangladesh, nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 2016, ha ferito direttamente anche l’Italia: nove delle venti vittime dei terrosisti erano infatti nostri connazionali.
 
Tra gli italiani in Bangladesh ci sono anche due missionari saveriani partiti da Vicenza.  Uno di questi è padre  Riccardo Tobanelli (bresciano di nascita, vicentino di adozione) che conosceva personalmente una delle vittime della strage. Padre Riccardo da 43 anni si occupa dei bambini di strada a Khulna vicino a Dacca (chiamati Tokai) per i quali ha creato una casa, un luogo di accoglienza e cura che ospita oltre cento bambini e bambine poverissimi. 
 
L’altro missionario vicentino in Bangladeh è padre Silvano Garello (nato a Valdagno nel 1938, prete dal 1964), anche lui saveriano, rientrato in Italia proprio in questi giorni da Dacca, per un periodo di riposo da tempo programmato.

Padre Garello ha spiegato che i missionari saveriani lavorano in Bangladesh da oltre 40 anni ed hanno esperienze positive di collaborazione anche con i musulmani locali. “Quando sono partito per rientare in Italia, le notizie erano ancora molto imprecise e frammentate.” – ha detto padre Silvano – “Gli abitanti di Dacca sono rimasti sconvolti per quanto successo. Anche in precedenza, però, la situazione non era tranquilla. Sono stati uccisi ministri di culto indù e buddisti, e anche un missionario del PIME ha rischiato molto”.Alla domanda esplicita sulla pericolosità della loro vita in Bangladesh, il religioso ha risposto “ci dicono di stare attenti, ma non riusciamo a definire esattamente cosa intendono”. 

Padre Garello opera sopreattutto nell’ambito culturale e crede molto nella necessità di educare ogni persona a conquistare autonomia e dignità. Il suo impegno è rivolto per questo, soprattutto, alla trasmissione del messaggio religioso in modo rispettoso ed alla collaborazione nella libertà reciproca.
 
 
 
 
Il quotidiano La Stampa di oggi ha intervistato invece padre Tobanelli riportando anche la toccante vicenda dello studente musulmano che è stato ucciso perchè ha scelto di rimanere vicino alle amiche rifiutando la possibilità di fuga offertagli dai terroristi. Di seguito il testo integrale dell’articolo di Niccolò Zancan:
 
 C’ è una voce familiare in mezzo al frastuono di clacson, urla e pianti, alle sei di sera nel quartiere Banani di Dacca. Padre Riccardo Tobanelli sta entrando in chiesa per l’ omaggio alle vittime italiane dell’ attentato. Partito da Vicenza 43 anni fa, non è più tornato indietro.
 
Fa il prete in Bangladesh, dove i cattolici sono lo 0,03 per cento di tutta la popolazione. «Sapevamo che il clima nei nostri confronti era cambiato. C’ erano diversi segnali. Ma non potevamo aspettarci qualcosa di tanto schifoso. Purtroppo il governo bengalese continua a negare che si tratti di terrorismo. La verità è che non ha i mezzi per affrontare questo problema enorme. Non c’ entrano più le moschee e forse non conta più nemmeno l’ indottrinamento. Basta un lavaggio del cervello via Internet. Quei ragazzi della strage all’ Holey Artisan Bakery erano dei frustrati che credevano di essere senza futuro. Siamo qui per pregare anche per loro».
 
La chiesa dello Spirito Santo è presidiata da sei militari. Ma nulla riesce a trasmettere un effettivo senso di sicurezza. L’ umanità ti salta addosso ad ogni passo. Una moneta. Un sorriso. Un bambino nudo in mezzo alla strada. Dacca è la città con la più alta densità di popolazione del mondo. E questo è un giorno di lutto. Vanno in scena due funerali solenni, uno di rito cattolico e l’ altro musulmano. Si celebrano quasi in contemporanea ad un chilometro in linea d’ aria. Ma l’ arcivescovo Patrick Rosario pronuncia parole che vogliono abbattere questa distanza: «La nostra è una comunità di fede, di amore e di speranza. Preghiamo per tutti i caduti dell’ attentato. Da sempre, molti missionari e lavoratori, uomini e donne italiane, sono venuti in Bangladesh per aiutare lo sviluppo di questo Paese. Ieri mi ha chiamato la Cei. Mi ha detto di avere coraggio. Noi siamo sicuri che questa tragedia avvicinerà ancora di più l’ Italia al Bangladesh».
 
Per tre volte i nomi delle vittime italiane vengono letti al microfono in un silenzio carico di emozione. Le diocesi del Bangladesh sono in tutto sette. La chiesa dello Spirito Santo è una delle più importanti. Ci sono più di duecento persone all’ interno, molti hanno lasciato le scarpe davanti all’ ingresso. A sinistra, le suore missionarie. A destra, famiglie bengalesi. In seconda fila, siede l’ unico scampato al massacro: Giovanni Boschetti è livido. Ogni tanto riceve abbracci in italiano, più spesso in altre lingue. Due signore di Dacca si inginocchiano avanti a lui, per chiedere perdono di quanto successo. Sono in lacrime.
 
Anche l’ ambasciatore italiano Mario Palma è sull’ orlo del pianto, quando va al microfono: «Il lato oscuro dell’ umanità sembra prevalere. Pensavamo non sarebbe mai successo in un Paese che ha sempre cercato di rispettare ed unire la diversità fra le varie culture. Tutti noi italiani abbiamo vissuto qui grazie alla gioia e il sostegno degli altri. Così ci sentivamo a Dacca fino al giorno del massacro».
 
Sta diluviando. La pioggia calda risale anche dai tombini. La grande moschea di Gulshan strabocca di gente. È il quartiere dell’ attentato, il centro della città. Va al microfono il fratello di Faraaz Hossain, lo studente ucciso per aver rifiutato la grazia dei terroristi. Sapeva recitare a memoria il Corano, dunque poteva andarsene dal ristorante. Ma non voleva lasciare le sue compagne di studio, musulmane vestite all’ occidentale. «Chutto», lo chiama il fratello Zaraif al microfono. Significa piccolo e adorabile. «Chutto, sei stato ucciso in un brutale attacco terroristico. Sono pieno d’ orgoglio per come ti sei comportato». Quando più tardi esce in mezzo a quel mare di gente, aggiunge: «Mio fratello aveva ferite sul corpo e tagli sulle mani. Significa che ha cercato di difendere le sue amiche».
 
Dentro alla moschea ci sono i più importanti imprenditori del Bangladesh. La famiglia Hossein è molto conosciuta. È proprietaria del marchio Transcom, un colosso con ramificazione nell’ elettronica e nel settore alimentare. Il signor Karim Enayetul è general manager di una compagnia di telecomunicazioni, e adesso viene circondato dai microfoni dei giornalisti locali: «Quello che è successo non è accettabile. Non dovrà ripetersi mai più. Vogliamo vivere in pace, in un posto sicuro». Pregano per Faraaz Hossein, per le sue amiche Tarishi Jain e Abinta Kabir. La madre di quest’ ultima accompagna la salma sorretta dai parenti. Non vuole staccarsi dall’ autoambulanza bianca che la porta via nel traffico. «Amore», continua a ripetere. «È una cosa brutale» dicono tutti. Ed è un sollievo ritrovare qui nella calca Hassan Furuque, vicepresidente di Bgmea, una delle più importanti imprese di esportazione di abbigliamento del Bangladesh. Perché in mattina era andato a rendere omaggio alle vittime italiane, ed è come se fosse lui ad unire i due funerali. «È stato un atto barbarico. Purtroppo sta succedendo in ogni parte del mondo. Dobbiamo stare tutti uniti e reagire insieme».