Evangelizazione e comunicazione: pensare e dire il cristianesimo oggi

di Lauro Paoletto

 
L’EVANGELIZZAZIONE OGGI 

Nella comunicazione dunque è decisivo l’atteggiamento con cui mi rapporto agli altri, al mondo. E questo vale ancora di più quando si tratta di trasmissione della fede.
Affermare che l’evangelizzazione è questione di atteggiamento non vuol però dire che questa si risolve con una nuova tattica e/o con nuove tecnologie ma significa innanzitutto riconoscere che essa chiede una profonda conversione comunitaria e personale che passa anche per un ripensamento del significato della comunicazione.
La comunicazione di fede tra gli uomini, per essere vera, esige gratuità e accoglienza e deve svolgersi in quel clima di reciprocità e libertà. La rete, oggi, da questo punto di vista, non è che uno dei tanti territori dove, in forme nuove, si ripropongono le domande di sempre.
La storia del rapporto tra Chiesa e media, e l’impegno stesso dei cosiddetti media cattolici ci mostra che c’è un Mar Rosso da attraversare, bisogna passare dalla sponda rappresentata dall’idea che i media siano strumenti, altoparlanti per diffondere le nostre idee e affermare il nostro punto di vista, alla sponda in cui esprimiamo la consapevolezza che invece sono antenne grandi orecchie elettroniche o di carta per ascoltare quel che dicono gli altri, il sussurro dei segni dei tempi. Non sono strumenti di propaganda ma di dialogo e ascolto, anzi costituiscono l’ambiente dove si possono intrecciare il dialogo e l’ascolto.
La G.S. al n. 44 afferma che “è dovere di tutto il popolo di Dio ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta”.
L’annuncio della Parola passa dunque necessariamente per la capacità di inserirsi nella storia delle donne e degli uomini ai quali ci si rivolge, di parlare la stessa lingua, di coglierne nel profondo le domande.
E non a caso sempre al n. 44 si legge ancora “fin dall’inizio della sua storia la Chiesa ha imparato a esprimere il messaggio di Cristo, con l’aiuto delle idee e la terminologia dei vari filosofi, e ciò allo scopo di adattare il Vangelo, nei limiti convenienti, sia alla comprensione di tutti, sia alle esigenze dei sapienti. Il suo scopo è stato quello di adattare il Vangelo alla portata di tutti, così come alle esigenze dei dotti, nella misura in cui tale era appropriato. Infatti questo adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. Per tal modo la capacità di esprimere il messaggio di Cristo a suo modo è sviluppato in ogni nazione, e al tempo stesso vi è promosso uno scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli”.
Queste affermazioni confermano che, come ben sappiamo, non esiste la comunicazione della fede data una volta per tutti ma che deve esserci un “adattamento della predicazione della parola rivelata”, cosa questa che è legge di ogni evangelizzazione.
In questo senso il rapporto tra comunicazione ed evangelizzazione passa innanzitutto attraverso lo sviluppo di una capacità di ascolto e accoglienza reciproci. 
Ma qual è oggi la vera sfida che l’evangelizzazione ha di fronte in Italia e più in generale nell’Occidente? Da più parti e in modi diversi si evidenzia che la vera sfida è quella della trascendenza. Per quanto concerne i media questo significa essere pienamente dentro la rete, ma affacciati su un altrove; potremo dire essere nei media ma non dei media, “nel web”, ma non “del web”.
A tale proposito Martini, con riferimento ai media, ci ricorda che essi nella loro varietà di linguaggi “sono tende potenziali in cui il Verbo non disdegna di abitare, lembi del suo mantello, attraverso cui può passare la sua potenza salvifica”.
Il discorso sarebbe molto lungo e complesso e ci porterebbe in ben altri lidi. Vale però la pena di almeno enunciare qui alcuni interrogativi e alcuni nodi che mi sembrano intersechino il nostro tema. Come si coniuga la sovrabbondanza di informazione che oggi abbiamo a disposizione con l’esigenza di riportare al centro la Trascendenza, di educare al mistero, di far sorgere la domanda circa l’Oltre?
Non c’è il rischio di venire in qualche modo ‘silenziati’ dalla sovrabbondanza di informazioni e narrazioni disponibili, o di venire equiparati a una della tante possibilità equivalenti, nel supermarket delle opzioni a disposizione degli individui iperconnessi?
Quale spazio può esserci per la fede nell’era digitale e quali linguaggi, discorsi, forme di relazione possono essere attivati oggi per illuminare il nostro presente con la ‘luce della fede’?
Ritorna l’esigenza di una essenzialità in un approccio personalizzato alla nuova evangelizzazione, di una gradualità nella proposta di fede, di una conoscenza dei linguaggi che ci permetta di incontrare le storie di ciascuno, di intercettare il bisogno di senso che abita ogni esistenza. E’ decisivo in questo tempo di iperconnessioni educare all’essenzialità dell’esperienza del silenzio per poter fare esperienza del mistero. A tale proposito è quanto mai urgente riproporci la domanda se e come noi (le nostre comunità, le nostre associazioni, le nostre diverse realtà ecclesiali) educhiamo al silenzio e all’unità interiore,  in un tempo in cui sembra prevalere il frammento, l’esercizio dello zapping, la velocità di comunicazione senza approfondimento.
Nelle nostre proposte di fede riusciamo a vivere l’esperienza della comunicazione della fede come qualcosa di relazionale oppure ci limitiamo a trasmettere contenuti? Quanto diamo attenzione al nostro modo di comunicare la fede non inteso come tecniche o tattiche comunicative, ma come modalità di incontro e riconoscimento dell’altro?
Abbiamo visto che la rete rende possibile un’orizzontalità preziosa, che è necessaria ma non sufficiente, tanto più con rifermento all’annuncio di fede. Accanto all’orizzontalità va proposta, se possiamo dire così, l’esperienza della verticalità che buca la rete e restituisce all’orizzontalità il suo significato pieno e umanizzante. ? la luce della fede che illumina anche il web svelandone le potenzialità umanizzanti. Ma questo non può realizzarsi come una semplice trasmissione di contenuti, ma solo attraverso un dialogo incessante che nasce da una capacità di ascolto. L’evangelizzazione chiede dunque luoghi di ascolto in tutti gli ambiti comunicativi, quelli informali come quelli dei media. Solo così la comunicazione è in grado di introdurre cambiamenti.
“Il Vangelo – scriveva il cardinal Martini – non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”.
La comunicazione di fede non è dunque prima di tutto trasmissione, enunciazione. Nell’era televisiva siamo stati portati a pensare alla comunicazione come a un broadcasting: emettere messaggi, trasmettere contenuti, dire qualcosa a qualcuno. Questo modello ha implicitamente guidato molte delle nostre pratiche, in contesti diversi: l’educazione, l’istruzione, la catechesi. Ma abbiamo visto che non è così.
Al n. 41 della costituzione pastorale GS si legge che la Chiesa “sa ancora che l’uomo, sollecitato incessantemente dallo Spirito di Dio, non potrà mai essere del tutto indifferente davanti al problema religioso, come dimostrano non solo l’esperienza dei secoli passati, ma anche molteplici testimonianze dei tempi nostri. L’uomo, infatti, avrà sempre desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, della sua attività e della sua morte. E la Chiesa, con la sua sola presenza nel mondo, gli richiama alla mente questi problemi”. C’è quindi una domanda intima e profonda dell’uomo, spesso inespressa, confusa, addirittura negata che la Chiesa deve far emergere.
Se l’evangelizzazione è comunicazione e se la comunicazione oggi ha subito un cambiamento di identità, allora occorre “avere il coraggio” di pensare una “nuova evangelizzazione” perché siamo in presenza di una “nuova comunicazione”. Di fronte alla constatazione che la comunicazione non è semplicemente “un insieme di tecnologie”, ma che negli ultimi decenni si è trasformata in una “cultura” e, oggi, in un “ambiente inedito di vita”, occorre raccogliere l’invito della sapienza evangelica: “Vino nuovo in otri nuovi”. La storia dell’evangelizzazione, infatti, documenta che se “il vino del Vangelo è sempre nuovo”, “gli otri dell’evangelizzazione” invecchiano rapidamente in relazione ai cambiamenti delle persone e delle società.
Dobbiamo essere consapevoli che “le nuove tecnologie non stanno cambiando solo il modo di comunicare, ma la comunicazione in se stessa, per cui si può affermare che si è di fronte ad una vasta trasformazione culturale”. “Non si tratta solamente di esprimere il messaggio evangelico nel linguaggio di oggi, ma occorre avere il coraggio di pensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo”. (Benedetto XVI discorso del 28 febbraio 2011 alla Plenaria del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali)
Da tempo, almeno in dichiarazioni ufficiali come quelle appena citate, è stata spalancata una porta perché la comunità ecclesiale non si limiti ad “usare”” la comunicazione per “diffondere il messaggio cristiano e il magistero della Chiesa” e ad “esprimere il messaggio evangelico nel linguaggio di oggi”, ma a “pensare” la fede, la cultura e la comunicazione per gettare, sulla frattura che esiste tra fede e cultura, un ponte che permetta almeno il contatto. C’è la consapevolezza che – come affermava Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 07.12.1990, n. 37c – “la rottura fra il vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca”, e il campo dell’odierna comunicazione conferma in pieno questo giudizio”.

5. LA CHIESA E LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
Al di là delle tecnologie, l’obiettivo, lo ribadiamo, è quello di sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le donne di oggi. Sono uomini e donne magari un po’ delusi da un cristianesimo che a loro sembra sterile, in difficoltà proprio nel comunicare in modo incisivo il senso profondo che dona la fede. In effetti, noi assistiamo, proprio oggi, nell’era della globalizzazione, ad una crescita del disorientamento, della solitudine; vediamo diffondersi lo smarrimento circa il senso della vita, l’incapacità di fare riferimento ad una “casa”, la fatica di intessere legami profondi. E’ importante, allora, saper dialogare, entrando, con discernimento, anche negli ambiti creati dalle nuove tecnologie, nelle reti sociali, per far emergere una presenza che ascolta, dialoga, incoraggia.
C’è un’antica regola dei pellegrini, che Sant’Ignazio ricordata recentemente da Papa Francesco. In una delle sue regole dice che quello che accompagna un pellegrino e che va col pellegrino, deve andare al passo del pellegrino, non più avanti e non ritardare. E questo chiede una Chiesa che accompagna il cammino e che sappia mettersi in cammino con l’uomo, come cammina oggi.
L’evangelizzazione come condivisione di fede richiama dunque l’immagine della compagnia tra pellegrini all’interno della storia, compagnia che per essere significativa deve farsi testimonianza personale e comunitaria. Papa Francesco al riguardo ci richiama allo stile della testimonianza: non dire ciò che andrebbe fatto, ma indicare la via praticandola; lasciar parlare i fatti, perché anche le parole possano trovare asilo nel cuore degli uomini.
Per questo non si deve aver paura della relazione, anche con chi la pensa diversamente. Pensare che l‘altro mi possa ‘contaminare’. Non siamo carte assorbenti, ma persone in cammino e in dialogo chiamate a comprendere le ragioni dell’altro, gioire per i suoi momenti di festa, condividerne le speranze e i timori.
La Buona Novella, proclamata dalla testimonianza di vita, dovrà dunque essere presto o tardi annunziata dalla parola di vita. Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati” . 
Il modello supremo della comunicazione sta nell’atto col quale il Dio vivente si è sommamente comunicato agli uomini: il mistero pasquale della croce e risurrezione di Gesù. (Martini)
La nuova evangelizzazione non passa dunque innanzitutto per nuove tattiche o nuovi strumenti e chiede alla Chiesa il superamento di un approccio unidirezionale: l’evangelizzazione chiede di essere vissuta nel segno della reciprocità. La Gaudium et Spes ci ha detto, a tale riguardo, che la nuova evangelizzazione si gioca anche nella capacità di lettura dei segni dei tempi e nella convinzione che la chiesa ha molto da dare alla cultura attuale, ma anche molto da ricevere.
La nuova evangelizzazione postula, in questa prospettiva, un rinnovamento della Chiesa e non a caso in molti affermano che la nuova evangelizzazione prima che una questione di catechesi è un problema ecclesiologico che riguarda la capacità o meno della chiesa di configurarsi come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda.
Ci dobbiamo domandare: siamo capaci di portare Cristo, o meglio di portare all’incontro di Cristo? Di camminare col pellegrino esistenziale, ma come camminava Gesù con quelli di Emmaus, riscaldando il cuore, facendo trovare loro il Signore? Siamo capaci di comunicare il volto di una Chiesa che sia la “casa” per tutti? Ecco anche nel contesto della comunicazione serve una Chiesa che riesca a portare calore, ad accendere il cuore. La nostra presenza, le nostre iniziative sanno rispondere a questa esigenza o rimaniamo tecnici?
La Chiesa a tale riguardo si deve interrogare. Nella propria storia anche recente forse è stata incapace di comunicare e ancor più di narrare, più che essere semplicemente una vittima di uno spossessamento.
Forse la fatica a raccontare e la predilezione per altri stili comunicativi, a volte troppo astratti, ha giocato un ruolo non irrilevante nella perdita di evidenza sociale del cristianesimo.
Rispetto a una comunicazione errata Papa Francesco recentemente ci ha messo in guardia da una grande tentazione presente nella Chiesa, che è l’”acoso” “la molestia” spirituale, il manipolare le coscienze; il fare un lavaggio di cervello teologale, che alla fine magari ti porta anche a un incontro con Cristo, ma un incontro puramente nominalistico, non con la Persona di Cristo Vivo.
Nella evangelizzazione una questione centrale è quella dei linguaggi: la comunicazione implica linguaggi differenti a seconda degli interlocutori. In una società complessa e plurale qual è la nostra questi linguaggi sono aumentati e questo rappresenta al contempo una risorsa e una fatica. Non ci è chiesto di conoscere tutti i linguaggi, ma almeno essere consapevoli che non esiste solo il nostro e non dare per scontato che tutti si devono adeguare al mio linguaggio.
Rispetto a questo, peraltro, c’è da chiedersi se esiste una incompatibilità strutturale tra i nuovi linguaggi e il messaggio senza tempo della chiesa? La storia anche recente, ci testimonia che non è questo il problema. Certo che il linguaggio della chiesa va ripensato. Persino la questione dell’autorità può essere, sulla base delle nuove sollecitazioni, opportunamente ripensata. Oggi la verticalità non può essere più visiva, come quella del campanile. Non può essere più un’autorità “d’ufficio”, data dal ruolo, perché oggi si rifiuta l’autorità che semplicemente pretende di essere tale. Si riconosce, però, l’autorevolezza di chi parla con credibilità.
Il ‘nuovo contesto esistenziale’ della rete è oggi uno dei luoghi in cui riprendere oggi il filo della narrazione per ricondurre la ‘conversazione’ tra la Chiesa e la cultura entro i confini di un dialogo esigente e paziente. ‘Abitare’ evangelicamente i diversi mondi vitali attraverso persone in carne ed ossa, testimoni anche ‘digitali’, è la strada per riscoprire che ‘la Galilea delle genti’, dove siamo attesi dal Maestro è proprio il tempo nel quale ci è dato di vivere.
Ciò richiede tre cose che siamo venuti indicando oggi. La prima è un’idea del mondo e della secolarità non come territorio su cui esportare un modello prefabbricato di cristianesimo, ma come luogo di ascolto e incontro ove sviluppare una figura originale della fede anche oggi. La seconda è una conoscenza del mondo non per sentito dire, ma di persona e sulla propria pelle. La terza cosa implica la dimensione dell’ospitalità: una teologia dell’incarnazione che aiuti a cogliere come dentro la missione della Chiesa ci sia sempre insieme un contenuto e una relazione da esprimere, esattamente come nel mondo della rete dove l’incontro e l’espressione di cose da condividere suscitano tanta partecipazione.
Domandiamoci allora: crediamo davvero alla comunicazione? favoriamo la circolazione delle idee? il dialogo? l’incontro? l’apporto di ciascuno? abbiamo un’opinione pubblica dentro la Chiesa? la nutriamo? la incoraggiamo? oppure ne temiamo la sola esistenza e gli effetti? ne vediamo intellettualmente la positività, ma ne paventiamo forse, istintivamente, i rischi
Il presente sembra non avere radici, memoria, origine, ma nemmeno ha la possibilità di aprirti a un futuro.
Quanto condiziona la comunicazione, quanto dipendiamo dalla comunicazione.
La rete rappresenta un modello di comunicazione relazionale, quanto questa è un modello anche per le nostre comunità?
la nostra comunicazione, per essere cristiana, non potrà non avere il segno dei chiodi, della croce; è comunicazione che conoscerà opposizione, rifiuto, comunicazioni alternative, silenzi sdegnosi, ribellione. Anche per questo la comunicazione credente domanda il coraggio, la parresia, senza di cui si fa chiacchiera da salotto, coraggio che ha concreto riscontro nella comunicazione fatta ai poveri, ai lontani, ai peccatori, agli ultimi, a quelli che non contraccambiano.
Ci vuole coraggio e non temere e lasciarci guidare da Gesù come i discepoli di Emmaus.