Fare famiglia con chi ne è stato privato. Mirella Zanon scrive agli amici da Astrakan per raccontare il suo ritorno in Russia

 
Il suo destino doveva essere la carriera diplomatica in giro per il mondo, ma la sua vocazione l’ha portata in Russia ad occuparsi di persone senza casa e senza famiglia. Mirella Zanon, giovane trevigiana, ha incontrato la Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, appena terminati gli studi universitari. La Comunità opera nel vasto ambiente dell’emarginazione e della povertà ed è diffusa in 25 paesi nel mondo. “Conoscevo il russo e volevo fare un’esperienza di volontariato internazionale – racconta. Così ho partecipato a un bando del Servizio civile promosso dalla Comunità e ho passato un anno ad Astrakan, una città di oltre mezzo milione di abitanti sul Volga, nella casa della Comunità”. Poi ha trascorso un anno di discernimento vocazionale a Vicenza. Dal 2008 è tornata in Russia ed oggi è responsabile della Casa di accoglienza “S. Giovanni Battista” ad Astrakan dove fa la “mamma” per una famiglia molto particolare composta da una ragazza madre con i suoi due bambini, un anziano mutilato che prima di incontrarla viveva per strada e un ragazzino disabile.  Durante le vacanze di Natale era stata in Italia, passando anche a Vicenza. Ecco la sua lettera di ritorno in Russia.
 
Stasera abbiamo finito presto di cenare, sono circa le 20.30 e ho già lavato i piatti. Mentre sto per uscire a svuotare il secchio dell’acqua, penso che poi mi metterò a giocare un poco a carte con i bambini, Andrej e Denis, e magari quando se ne andranno a letto mi guardero’ un film. Sono tornata dall’Italia da due giorni e non è facile riprendere i ritmi biologici: anche se il fuso orario è solo di due ore in piu’, faccio fatica ad addormentarmi la sera.
 
Faccio appena in tempo ad aprire la porta di casa per uscire e mi ritrovo davanti, a tre metri da me, due uomini che stanno entrando dal cancelletto in maniera disinvolta. Che tempismo! Non li riconosco ed impaurita chiedo loro chi siano. Forse per lo spavento non capisco la loro risposta, faccio due passi indietro per chiudere la porta e solo allora, nel buio del giardino, capisco che ho davanti il padre di Andrej con un amico. Bastano pochi attimi, mi avvicino e mi rendo conto che sono ubriachi. Aleksandr, il padre di Andrej, mi saluta e mi chiede di vedere suo figlio. Sono ormai quattro anno che suo figlio vive qui con noi, quattro anni di rapporti difficili. Questa visita ha dell’incredibile. L’amico intanto barcolla dietro di lui, e dal tintinnio del sacchetto di plastica che tiene in mano capisco che non hanno intenzione di smettere di bere per la serata. Al mio rifiuto, Aleksandr mi fissa ed insiste: “Voglio vedere mio figlio. Siamo appena arrivati da un viaggio di 30 ore in autobus. Per favore”. Sono otto mesi che non lo vede.

Penso a quei due angeli che stanno guardando i cartoni animati in casa, penso che non possono vedere questi due in questo stato. Penso che Andrej non ha diritto di vedere suo padre messo cosi. Aleksandr mi mostra il sacchetto pieno di dolciumi che ha comprato per il figlio, e’ venuto a portare i soldi degli alimenti alla mamma. Mi sembra che un minimo di lucidita’ ce l’abbia, per lo meno e’ molto calmo e soprattutto cosciente di quello che dice, a differenza dell’altro personaggio che impreca dietro di lui, che nel frattempo e’ andato ad appoggiarsi al recinto per non rovinare al suolo. Gli dico di aspettare un attimo, vado a chiamare Natasha, la madre, e che comunque l’amico messo cosi’ non entra in casa. Ma chi sono io per impedire ad un padre di vedere suo figlio?Qualunque padre sia?

Mentre Natasha esce, mando Denis a farsi la doccia, cosi intanto posso gestire quei dieci minuti risparmiandogli i dettagli di una scena di cui comunque chiedera’ conto, per quello che puo’ capire nei suoi undici anni. Guardo il piccolo Andrej seduto sul divano, ancora ignaro del fatto che la’ fuori c’e suo padre. Come posso tenerglielo nascosto?Ritorno fuori, Natasha sta discutendo animatamente con lui. Gli dico che puo’ entrare e fermarsi all’ingresso, a patto che l’altro stia fuori. Alla prima mossa sbagliata, lo avverto che chiamo la polizia. Aleksandr sorride, entra assieme alla mamma, chiamano il piccolo Andrej che, timidamente, viene a salutare il papa’ all’ingresso. Alle sue domande risponde sibillino, lo bacia sulla guancia…i mesi e gli anni di lontananza non aiutano questo giovane padre nella confidenza col figlio. La distanza che li separa e’ assordante e mi provoca una fitta al cuore. Li lascio soli qualche minuto, loro tre che in un tempo lontano erano una famiglia, e ritorno fuori per vedere cosa sta combinando l’amico, che scopro chiamarsi Aleksej. Aleksej, per l’appunto, dopo aver vomitato sta tentando di riaprire il cancelletto, solo che difficilmente ci riuscira’, visto che sbaglia di un metro e se l’e’ presa con la cassetta della posta, scambiandola per una maniglia. Mentre mi avvicino, collassa con la bava alla bocca davanti alla mia macchina. Lo aiuto a rialzarsi, mentre borbotta qualcosa di incomprensibile e mi rendo conto che ho avuto paura di un uomo che in questo momento e’ piu’ indifeso di me e non ha ancora capito dove e’ capitato. Lo guardo e penso, non so perche’, forse per la contrapposizione di quell’immagine, a quella frase del salmo…”che cos’e’ l’uomo perche’ te ne curi…eppure l’hai fatto poco meno degli angeli…”

Poco dopo Aleksandr esce salutando il figlio, mi raggiunge davanti casa e si mette a ringraziarmi per tutto cio’ che faccio per suo figlio. Mi dice che sono per Andrej come una seconda mamma…e mi augura salute nello stesso identico modo che usano i fratelli che incontro in strada tre volte a settimana. Ha 27 anni, un figlio di quasi sei, ma in quel momento mi suscita forse pieta’…provo quasi un senso di affetto, commozione, nei confronti di questa persona che tanto ha fatto penare me, Natasha, il figlioletto con le sue mosse infantili, le sue cattiverie. Un padre…un padre e’ una figura sacra per un bambino, indispensabile. Andrej a stento lo riconosce…

Chiamiamo un taxi, Aleksandr ed Aleksej non sanno nemmeno dove vogliono andare, ma almeno cosi siamo sicure che se ne andranno…Quando la macchina arriva, guardo la strada immersa nel fango e ancora non mi capacito di come siano arrivati fin da noi in quello stato, solo perche’ (SOLO perche’??) ad un padre e’ venuto in mente di vedere il proprio figlio, nel bel mezzo della sbornia.
Torniamo in casa, i bambini gongolano contando sul divano i dolcetti che Aleksandr ha appena portato. Ridono felici. Io e Natasha ci sediamo l’una di fronte all’altra, ci guardiamo con gli occhi spalancati, mute, scuotiamo la testa ripensando alla scena che abbiamo appena vissuto. Ai limiti dell’immaginabile, col padre di Andrej che voleva stappare una bottiglia di spumante per offrircelo assolutamente mentre aspettavamo il taxi e il suo amico si metteva ad orinare ridendo in mezzo alla stradina.

Volevo guardare un film leggero stasera, no? Sarebbe stato meglio che quelle che ho ancora impresse davanti agli occhi fossero state scene inventate, ed invece sono le vite di Andrej, Denis, Natasha, Aleksandr, Aleksej…assieme alla mia che si mescola alla loro. In prima serata…

Ben tornata a casa, Mirella, se per caso a volte, ancora fresca d’Italia, ti venissero scrupoli su quale sia il tuo posto…almeno ora che vi ho scritto raccontandovi questa trama sono le due e non dovrei avere piu’ problemi col fuso orario per addormentarmi…
 
Mirella