Fede, vocazione e discernimento: per una libertà chiamata a risolversi

L'intervento di don Cristiano Passoni alla Scuola del Lunedì

 
La registrazione dell’intervento di don Cristiano Passoni andrà in onda su Radio Oreb  (FM 90.2 e streaming web):
 
– sabato 3 marzo 2018 alle ore 9 
 

FEDE VOCAZIONE DISCERNIMENTO Intelligenza del reale e conoscenza di sé. Per una libertà chiamata a risolversi    Don Cristiano Passoni,docente di spiritualita’ alla  facolta’ teologica dell’italia settentrionale – MilanoVicenza, Centro “Mons. Arnoldo Onisto”, 5 marzo 2018     

1. Dal linguaggio vivo di una parabola
Pur senza essere sempre richiamato nella sua formalità specifica, il tema del discernimento è indubitabilmente uno dei fili rossi che attraversano il magistero di Papa Francesco. Frequentemente vi ritorna, offrendone spesso spunti concreti per la sua pratica che non sono altro, per la verità, che il normale esercizio della fede cristiana. 
In una preghiera domenicale dell’Angelus della scorsa estate lo spunto è venuto dal commento alla celebre parabola del seminatore (Mt 13,3-9). Ritornano, nella sua breve esposizione, i temi essenziali della fede, della vocazione, del discernimento e del linguaggio singolare della loro mediazione/testimonianza che possono opportunamente introdurre la nostra riflessione. Il tono colloquiale e sapienziale del suo linguaggio non deve distrarre circa la profondità e la rilevanza delle osservazioni messe in campo. Il rimando alle “cose di ogni giorno” non può essere, infatti, liquidato come minimale, quanto capace, nella sua immediatezza, di rilevare ciò che è decisivo per la verità stessa dell’umano comune.
 
«Gesù, quando parlava – afferma-, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti. Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio». 
[…]«Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto.
[…]«Perciò la parabola -prosegue- riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra». 
[…]Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola . 
 
 
 

2.  La consistenza di una piuma e il bisogno di contemplazione
Per quanto sia sempre impegnativo tentare di descrivere il contesto, provo a richiamarne, senza pretesa di esaurirne il campo, le coordinate essenziali in due quadri, uno di ordine descrittivo, l’altro, per così dire, propositivo, precisamente in riferimento a quanto evocato. 
Il quadro descrittivo lo raccolgo da una rilettura offerta dal cinema contemporaneo:  Piuma di Roan Jhonson, 2016. 
L’altro spunto, di ordine propositivo in ordine alla possibile composizione di luogo di questa stagione, lo colgo dalle riflessioni di Byung-Chul Han, di origini sud-coreane, professore di scienza della cultura e filosofia presso l’università di Berlino, tra le voci interessanti del panorama filosofico contemporaneo. Nel suo saggio Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose , propone una suggestiva analisi della crisi odierna, suggerendo una possibile via di ripresa al senso di disgregazione in cui viviamo. 
L’affanno che fascia il vivere corrente non sarebbe più, a suo parere, il frutto dell’accelerazione imposta dalla tecnica, come negli albori della sua affermazione, quanto il sintomo di una dispersione temporale che si è prodotta, vale a dire, della stessa percezione del tempo. In questo senso, per Byung-Chul Han «il nome della crisi moderna non è l’accelerazione». Tale epoca, infatti, sarebbe già conclusa. Piuttosto, «l’odierna crisi del tempo risale a una discronia che porta  a disturbi temporali e alterazioni differenti della percezione del tempo». In sostanza, «al tempo manca un ritmo che gli dia ordine» . L’esito sarebbe duplice: l’atomizzazione del tempo e delle identità. 
Come riprendersi da questi due esiti? Se è vero che «non la quantità degli eventi, ma l’esperienza della durata rende più piena la vita» , la strada proposta non è quella della moltiplicazione del fare, ma quella smarrita dell’indugio, della contemplazione, del «profumo del tempo», che è, invece, intriso di storie, di narrazioni, di rapporti, in grado di ricomporre ciò che è disgregato. «La verità è infatti l’opposto della mera coesitenza contingente, essa implica il legame, la relazione e la prossimità. Solo le relazioni intense rendono reali le cose» . 
 
 
3. Intelligenza del reale e conoscenza di sé.
Evocato se pur sommariamente il contesto, possiamo riprendere la riflessione circa l’arte del «guardarci dentro», cercando di descriverne il campo. Almeno due sono gli aspetti che devono essere messi in rilievo: lo spazio dell’interiorità, quale scena imprescindibile e la fede come intelligenza del reale, come senso dell’esistenza e delle cose. 
 
3.1. lo spazio dell’interiorità
Quanto alla singolarità di tale spazio, non meglio definibile, la saggezza dei Padri ha provato a circoscriverlo, a partire dall’esperienza di esso. In uno dei suoi Detti, il Antonio ne offre una suggestiva descrizione:
 
«Chi siede nel deserto per custodire la quiete con Dio è liberato da tre guerre: quella di udire, quella del parlare, e quella del vedere. Gliene rimane una sola: quella del cuore» .
 
 
 
3.2. la fede come intelligenza del reale
Quanto all’esigenza di uno sguardo di verità, di una sapienza affidabile, la Scrittura ne è davvero traboccante. Vi si ritrova una descrizione continua e una mappa concreta del dipanarsi di questa ricerca che è al tempo stesso dono di Dio e anelito dell’uomo. Basterà, per trarne qualche esemplificazione, evocare due vicende istruttive nelle quali un opposto e convergente punto di vista illumina un centro: la «visione» di Giovanni in Ap 7,9-15 e quella di Paolo in Rm 8,31-39.
 
4. Per una libertà chiamata a risolversi: il discernimento spirituale
Al riguardo, in prima battuta, è opportuno fare tre precisazioni: circa il metodo, la qualità complessiva e lo scopo. 
Diviene, in tal modo, più chiaro identificare la realtà del discernimento. Non è un decidere comunque e in ogni caso, ma un modo di illuminare il mistero dell’incontro con Dio nella concretezza dei giorni. Se è vero, per un verso, che tramite esso si giunge ad una scelta, tuttavia l’aspetto fondamentale è che tale decisione ci fa entrare più intensamente nel rapporto con Dio. Come lo prospettava il Card. Martini ai giovani nel cammino del Gruppo Samuele, 
 
«il discernimento spirituale è lo strumento per conoscere la volontà di Dio sulla propria vita. Non è, come talora si pensa, un esercizio di analisi psichica, quasi un mettersi davanti allo specchio per capire quali sono le nostre inclinazioni o le nostre ripugnanze. Esso è un esercizio di attenzione e di ascolto dello Pneuma divino nella mia storia. […] È  ascolto di una parola di Dio non scritta che risuona ancora oggi nella Chiesa e che non si trova in nessun altro se non in me» .
 
Si tratta dunque di un processo che ha come obiettivo quello di decidere, in ogni occasione, “quello che conviene fare”, secondo Dio, prestando ascolto a quella parola non scritta che mi abita, senza rischiare come spesso accade, travolti dal molto che confonde, di rimanere “soltanto spettatori” della propria vita. Più precisamente, seguendo la tradizione radunata da Ignazio, potremmo ricordare che le tappe di questo processo, opportunamente riassunte dall’Evangelii Gaudium al n. 51 , sono tre: riconoscere, interpretare, scegliere.
 
 
5. «Abba, dimmi una parola di salvezza!»: L’accompagnamento spirituale
Un ultimo aspetto riguarda il tema dell’accompagnamento spirituale . «Abba, dimmi una parola di salvezza!». Spesso con questa domanda il giovane monaco presso gli antichi padri del deserto interrogava l’anziano per ricevere da lui quella parola capace di indicare il cammino personale di salvezza. Nella storia della spiritualità cristiana, l’esigenza di un accompagnamento spirituale è nata proprio dentro questa semplice richiesta fatta da fratello a fratello. Essa custodiva nel medesimo tempo un desiderio ed una persuasione. 
Il desiderio stava e sta tuttora racchiuso dentro una questione essenziale: «Come posso comprendere che è vero e secondo Dio ciò che sento o ciò che vorrei vivere? Come posso affrontare questo momento di fatica ed oscurità della vita?». 
La persuasione, invece, consisteva nel riconoscimento della “grazia di una parola”, presente in un discepolo più anziano nel cammino. L’altro era visto come realmente capace di restituire una effettiva parola di salvezza per il proprio itinerario e, insieme, lo si ascoltava come un vero e proprio padre nella vita secondo lo Spirito. Per questo gli si domandava con fiducia: «Abba, dimmi una parola!». 
L’ideale è sinteticamente espresso da Evagrio in una sua lettera:
 
«Sii un portiere del tuo cuore e non lasciar entrare alcun pensiero senza interrogatorio. Interroga ogni singolo pensiero e digli: “Sei uno dei nostri o uno dei nostri avversari?” (Gs 5,13) E se egli è uno di casa, ti colmerà di pace. Se invece è del nemico, ti confonderà con l’ira o ti ecciterà con un desiderio. Di questo tipo infatti sono i pensieri dei demoni» .
 
Sullo sfondo della riflessione di Evagrio stava la rilettura della teofania di Gs 5, 13, prima della presa di Gerico, come senz’altro la Vita di Antonio 43, dove veniva citato e riletto nella medesima traccia lo stesso testo. Mantenere vive queste domande (Chi sei tu? Da dove vieni?) era indispensabile, essendo concretamente il «segno di un’anima sicura» .
La custodia del cuore, però, non è fine a se stessa. La familiarità col Signore Gesù che essa coltiva e desidera conduce il discepolo a mettersi a sua volta a disposizione. Fiorisce qui la domanda circa la propria vocazione e il proprio posto da assumere nel mondo e nella Chiesa. L’accompagnamento spirituale non soltanto aiuterà a custodire il cuore, ma anche a trovare e corrispondere all’originale chiamata di Dio sulla vita. 
 
don Cristiano Passoni
 
 
 
 
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