Garantire la pastorale ordinaria con l’angoscia nel cuore

Don Leopoldo Rossi racconta i giorni durante il rapimento dei confratelli

Don Leopoldo Rossi è tornato a Vicenza la sera di martedì 3 aprile 2014. “Fidei donum” in Camerun dal 2010, è rientrato in Italia assieme a don Maurizio Bolzon, con il quale ha condiviso la guida pastorale della giovane parrocchia di Loulou, nella diocesi di Marouà-Mokolo.

Con don Maurizio ha pure deciso di restare nel Paese africano fino alla liberazione di don Giampaolo Marta e don Gianantonio Allegri. Una scelta difficile e coraggiosa.

«Subito dopo il rapimento, ma anche nei giorni seguenti – racconta don Leopoldo Rossi -, il senso di impotenza per i nostri due confratelli e suor Gilberte era evidente. Da un lato provavamo grande angoscia per loro, dall’altro sentivamo la tristezza dei cristiani di Tchére che ci dicevano: “Ora siamo come pecore senza pastore”. Ci  siamo chiesti: “E ora che cosa facciamo?”».


Quale risposta vi siete dati?

«Abbiamo capito che nonostante la straordinarietà e la gravità dell’evento, noi dovevamo continuare a gestire l’ordinarietà della vita. Così ci siamo ritrovati con un’altra parrocchia, oltre la nostra, di cui occuparci».

Ma si è trattato di una cura pastorale a momenti alterni…

«Durante tutta la durata del rapimento abbiamo vissuto tre fasi. Nel primo periodo, don Maurizio e io  siamo stati accolti dalle Suore della Divina Volontà a Marouà. Ci era stata data una scorta, perciò durante il giorno avevamo la possibilità di recarci nelle nostre comunità in sicurezza.

In un secondo tempo siamo tornati a stabilirci a Loulou, dove avevamo la protezione fissa di 5 militari, perciò potevamo svolgere tutte le nostre attività.

Infine, il Vescovo di Vicenza e il Vescovo di Marouà hanno deciso che per la nostra sicurezza dovevamo essere trasferiti a sud, nella capitale, dove ancora una volta ci hanno accolto le Suore della Divina Volontà nella loro casa di Yaoundé.

Da quel momento non ci è più stato possibile tornare nella nostra parrocchia, così il Vescovo locale si è impegnato a garantire la celebrazione domenicale delle messe. C’è poi da dire che il recente arrivo della stagione delle piogge ha concluso le attività pastorali».


Il senso di impotenza l’abbiamo vissuto anche noi a Vicenza. Però è prevalso il forte richiamo alla speranza che mons. Beniamino Pizziol non ha smesso un istante ed è stato un fiorire di preghiere, ovunque, nelle più diverse occasioni comunitarie come nell’intimo delle case.

«Subito dopo il rapimento, con don Maurizio ho percepito la forza di una preghiera che si innalzava da ogni parte del mondo. Questo ci ha dato forza e ci ha fatto sentire sostenuti. Questo fiume di preghiere è stato alimentato anche dalle nostre comunità, con preghiere semplici, ma di una fede che ha dell’esemplare. Quando i nostri parrocchiani avvertivano che in noi la preoccupazione aveva il sopravvento ci dicevano: “Dio è grande… Dio vede… Dio sa… Dio può tutto…”».
 

Lei e don Maurizio avete mai avuto paura?

«Eravamo preoccupatissimi per i nostri confratelli e per suor Gilberte, ma paura per noi no, non l’abbiamo mai provata. Né ne avremmo avuto motivo: ci siamo attenuti alle disposizioni delle autorità e della Chiesa locali. Ci hanno dato una scorta e noi l’abbiamo accettata. Siamo sempre stati prudenti».
 
Sapevate del vostro rientro non appena sarebbe avvenuta la liberazione di don Giampaolo e don Gianantonio, ma è stato comunque improvviso…

«Il Vescovo Beniamino ci aveva preannunciato che, dopo la liberazione, saremmo dovuti tornare a Vicenza per condividere un tempo di riflessione e discernimento in Diocesi sul futuro della missione in Camerun. Per questo, con le nostre comunità c’era stato un anticipo di commiato. I nostri parrocchiani sapevano della partenza di altri missionari “bianchi” e temevano che ce ne saremmo andati anche noi. Avevamo cercato di prepararli a questa eventualità, cecavamo di consolare la loro incertezza, ma eravamo noi per primi nell’incertezza:  il nostro era un saluto a metà tra il poter e il non poter dire. 

C’è il dispiacere di una partenza che potrebbe avere il sapore di un abbandono. Non sappiamo come evolverà la situazione nel nord del Camerun, né che cosa la nostra Chiesa deciderà».


In questi giorni la stampa si concentrerà sulle dinamiche del rapimento, sugli esecutori, sul periodo di prigionia, sulle modalità della liberazione… Forse resterà inespressa una domanda: chi ha vinto?

«Dopo tanti anni di impegno della Chiesa vicentina in terra camerunese, verrebbe da dire che abbandonarla così è un fallimento e che abbiamo lavorato per niente.

Verrebbe anche da dire – specie per la parrocchia di Loulou, nata da poco – che le nostre comunità sono ancora troppo giovani, devono ancora crescere e rinvigorirsi… e dubitare che ce la faranno.

Eppure in questi giorni la liturgia della Parola ci propone il Libro degli Atti degli Apostoli: anche la venuta di Gesù, subito dopo la sua morte, agli occhi dei suoi appariva un fallimento…

Eppure gli attentati alle chiese in Nigeria dicono che lì i cristiani hanno ancora il coraggio di radunarsi e di professare la loro fede…

Dio sa stupirci. Al di là di noi, lo Spirito continua a operare.

E’ stato un fallimento? Lo sapremo tra cent’anni, perché solo a distanza di tempo vedremo quanto le parole del Vangelo hanno toccato i cuori del Camerun.

Se ci sarà data la grazia di tornare, sarà il segno che molte sofferenze sono state evitate. Ma se ciò non avverrà non dobbiamo pensare che noi siamo indispensabili. Domenica prossima è Pentecoste: il Signore non farà mancare lo Spirito Santo ai cristiani del Camerun!».
 

Luca de Marzi