I 70 anni del Vescovo Beniamino

L'intervista rilasciata a La Voce dei Berici

 
Il nostro vescovo Beniamino giovedì 15 giugno compie 70 anni.
Se vogliamo fargli un regalo chiamiamolo “Padre Vescovo”. Beniamino Pizziol è un uomo di grande spiritualità, pacato, empatico, che ha raggiunto questo traguardo mano nella mano con Gesù, e sarà con Lui che giovedì festeggerà il suo compleanno prima di tutto, in preghiera, come ogni mattina alle 6.30 in cappellina. Dopo il suono della sveglia arriverà puntuale la telefonata di mamma Olinda, 97 anni, che abita a Treporti, in provincia di Venezia. Se vogliamo fargli sentire un po’ meno la nostalgia di casa – non ne soffre, ma un po’ di premura non guasta – prepariamogli il tronco di Natale, il suo dolce preferito, che Olinda impastava sempre in occasione del Santo Natale e di altre feste importanti. Da piccolissimo per ore veniva posto in una borsa di paglia intrecciata – la vecchia “sporta” per la spesa – che il “santolo” (padrino) attaccava ad un chiodo sotto al portico, nella casa di Treporti. Grande sportivo, ama il gioco del calcio e da giovane eccelleva anche in pallacanestro, pallavolo e ping pong. Lo intervistiamo una mattina in Seminario, dove ogni lunedì si incontra con i preti della Diocesi, e dove ci ha aperto il cuore, raccontandoci alcuni particolari della sua vita, che ci hanno consentito di conoscere di più chi è il vescovo Beniamino.

Padre Vescovo come festeggerà i 70 anni? «Nella mia vita non sono mai stato abituato a festeggiare i compleanni. Sarà una giornata di lavoro come le altre». Settant’anni sono abbastanza per fare un bilancio. Sente questo evento come un passaggio importante? «La mia vita è un continuo pellegrinaggio, non sono stato io a decidere i luoghi, le persone, le modalità di realizzazione, ma è stato un “Altro” a condurmi, io mi sono solo fidato e affidato. Ho sempre sperimentato una dimora provvisoria, un domicilio più che una residenza. Nella carta d’identità ho cambiato residenza sei volte, e non ho ancora finito: a 75 anni penserò ad un ulteriore trasloco fino ad arrivare alla residenza definitiva, che non si trova qui. In questo pellegrinare, soprattutto attraverso la messa quotidiana, la preghiera personale e comunitaria, percepisco che la mia vita si sta lentamente “conformando” a Cristo, mi piacerebbe arrivare a dire, come l’Apostolo Paolo:“Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”». Le manca la terra veneziana? «Non mi sono mai legato ad una terra in particolare anche se ho vissuto in modo intenso le relazioni con le persone e le comunità che mi sono state affidate. Ogni giorno sono talmente impegnato che non mi resta il tempo per le nostalgie, pensi che fino ad ora sono tornato solo due volte a Venezia centro storico: per la morte del patriarca Marco Cé e l’anno dopo per il primo anniversario». A proposito di Marco Cé, quali sono state le figure fondamentali per la sua formazione? «Marco Cé è stato vescovo a Venezia per 22 anni. C’era una grande sintonia e stima reciproca, mi ha insegnato l’amore per la Parola di Dio. Per me non esiste una sola predica che possa prescindere dalla Parola che è stata proclamata. Mi ha poi insegnato l’importanza di tessere buone relazioni, soprattutto con i preti. L’altra figura chiave è stata il cardinale Scola con il quale ho collaborato per nove anni, un uomo di grande intelligenza, capace di cogliere i segni del futuro. A Venezia abbiamo condiviso insieme la visita pastorale, dove mi ha insegnato a far emergere l’essenziale, i fondamenti su cui si regge una comunità cristiana: la Parola, i sacramenti, la preghiera e la carità». Il suo compleanno coincide quasi con il suo ingresso in diocesi come Vescovo (11 giugno 2011). Quali sono le gioie e le fatiche più grandi di questi sei anni? «Le gioie sono sicuramente l’ordinazione di 31 preti, di otto diaconi permanenti, il mandato a moltissimi missionari vicentini tra cui quattro preti ‘fidei donum’, il mandato a decine di giovani per un’esperienza missionaria estiva e a una quarantina di persone per i gruppi ministeriali. Una gioia che si ripete, in queste anni, è la visita pastorale: l’incontro con i bambini della scuola dell’infanzia fino agli anziani, in modo particolare gli ammalati nelle loro case. Incontrarli è sempre un’esperienza molto intensa e commovente. Naturalmente ci sono anche le fatiche: in particolare la diminuzione degli “operai”, vale a dire i preti, i religiosi, i laici battezzati, di fronte a un “campo”, inteso come mondo, sempre più vasto e complesso». A proposito di preti ordinati, sabato scorso è toccato a Luca, Stefano, Andrea e Davide. Che cosa augura a questi nuovi presbiteri? «Auguro loro di essere preti innamorati di Cristo, impegnati a edificare comunità di credenti, di discepoli di Gesù, vivendo con loro e in mezzo a loro. Non devono correre di qua di là, affannandosi per organizzare le gite, le sagre, i tornei, ma spendendosi per l’annuncio e la testimonianza del Vangelo di Cristo». C’è una cosa che in questi lunghi anni ha seminato e che ora sta raccogliendo? «Ho continue richieste di accompagnamento spirituale, uomini, donne, giovani, anziani che sentono il bisogno di confrontarsi con il Vescovo nel loro cammino spirituale. Purtroppo, ed è una mia sofferenza, non riesco a seguirli tutti e sono stato costretto a concentrare e ridurre. Le relazioni personali a partire da Gesù sono la mia gioia, la mia passione». Che cosa immagina per lei alla fine del suo mandato di Vescovo? «Sogno di tornare a fare il collaboratore pastorale in una parrocchia o in un’Unità Pastorale. Senza responsabilità di governo potrò occuparmi dell’accompagnamento spirituale, dell’incontro con i malati, della celebrazione dei sacramenti, delle confessioni e della lettura di buoni libri. Oggi, soffro molto la mancanza di tempo disponibile per incontrare le persone». Ha un momento particolare della giornata in cui prega più volentieri? «Amo pregare la mattina, la mia vita quotidiana dipende dalle prime due ore della giornata. Mi sveglio alle 6, faccio colazione con una mela, caffè e biscotti e alle 6.30 sono in cappellina a pregare. Lì, presento al Signore le mie fatiche, le mie gioie e prego per tutti. Dopo la meditazione sulle letture del giorno (lectio), dedico del tempo alla lettura dei giornali e alle 8 celebro la messa». Quali sono le sue passioni? Ne ha una in particolare? «Oltre al calcio, sono un appassionato di film western, pur non avendo mai preso in mano un’arma, a parte quei piccoli fucili con il tappo legato ad uno spaghetto che i bambini usavano alle sagre per colpire gli oggetti. Mi sono chiesto spesso il perché. Credo che la motivazione venga dal fatto che, normalmente, trionfa la giustizia, si esalta la solidarietà degli uomini bianchi nei confronti degli indiani, si mostra una vita austera, piena di imprevisti e di pericoli. Preferisco i film realizzati prima del 1965 e li conosco quasi tutti» Ha più dato un calcio a un pallone? «Sì, certo. Lo faccio se c’è il defibrillatore e un’ambulanza pronta nei paraggi (ride). In visita pastorale spesso mi chiedono di andare a trovare gli sportivi nei campi e faccio due tiri. Da giovane ero un buon centrocampista, giocavo con i ragazzi del Venezia, quando la prima squadra era in serie A. Poi, a 16 anni, il rettore del seminario mi disse “o calcio o prete”». Se non avesse scelto di servire il Signore che lavoro avrebbe fatto? «Ho frequentato il seminario a Venezia dalla quinta elementare, ma non avevo chiara la vocazione del prete, pensavo di diventare medico. Persi mio nonno per colpa di un tumore devastante e pensai di dedicarmi agli studi di medicina per sconfiggere questo male, perché i nonni potessero vivere più a lungo. Dopo le medie frequentai i cinque anni del liceo classico e i cinque anni di teologia ma a 23 anni non me la sentii di diventare prete. Il Patriarca Albino Luciani (futuro papa Giovanni Paolo I) mi disse: “Iscriviti all’università e trovati un lavoro, così se decidi che non sarai prete guadagni tempo”. Mi iscrissi a pedagogia e poi a psicologia. Quell’estate lavorai come manovale in Germania e visitai Monaco, Londra e Parigi, rientrato in Italia trovai lavoro come insegnante di educazione fisica». La vocazione come e quando arrivò? «Arrivò a 25 anni, in un campo di pallacanestro. Uscendo da una messa, una sera, ho sentito dei ragazzi poco più giovani di me che giocavano a pallacanestro bestemmiando e litigando tra di loro. In quel momento avvertii dentro di me queste parole: “Te li affido, prenditene cura, aiutali a crescere e a maturare”. Tornai dal Patriarca Luciani e gli dissi: “Se vuole sono disponibile a essere ordinato prete”, mi ordinò subito diacono e dopo soli tre mesi prete (3 dicembre 1972)». Che bambino era da piccolo? «Ero un ragazzo vivace, pieno di vita, socievole, ma sapevo anche essere birichino e a volte un po’ birbante, giocavo tantissimo, mi piaceva correre, sono sempre stato portato per gli sport». Padre Vescovo l’ultima curiosità: che dolce è il tronco di Natale? «Pan di spagna, infarcito di crema, con del cioccolato sopra, dolce che in genere viene preparato per Natale ed ha la forma di un tronco, è buonissimo». Marta Randon