Il peccato non è una macchia e il confessionale non è una tintoria

Prima catechesi dell'Abate di Bassano sulla Confessione

 

Papa Francesco usa spesso delle espressioni, che sembrano battute, ma costringono a pensare. Così un giorno ha detto che “il confessionale non è una tintoria”. Cosa voleva mai dire? A un giornalista che gli chiedeva spiegazioni, lui ha risposto che “era un esempio per far capire l’ipocrisia di quanti credono che il peccato sia una macchia, soltanto una macchia, che basta andare in tintoria perché te la lavino a secco, e tutto torna come prima. Come si può smacchiare una giacca o un vestito: si mette in lavatrice e via. Ma il peccato è più di una macchia. Il peccato è una ferita, che va curata e medicata.”. Di fatto accade che spesso la decisione di confessarsi sia legata a idee come “Lavarsi la coscienza”, “Dare una bella pulita all’anima”, “Tornare in grazia di Dio”, ecc.; e la ragione è magari perchè si avvicina il Natale o la Pasqua, o c’è un’occasione particolare, nella quale si vuole fare la comunione, pur restando vero che per fare la comunione (e cioè per unirci davvero al Signore) è necessario essere riconciliati e in pace con il Padre e con i fratelli. Talora si può anche decidere di confessarsi per “avere una buona parola”, o perché ci portiamo nel cuore una sofferenza che cerca consolazione; o perché si pensa che questo sia una bella devozione, che ci fa sentire buoni cristiani; o perché c’è una legge che chiede di “confessarsi almeno una volta all’anno”… Questi motivi non sono sbagliati in sè, ma ancora una volta bisogna domandarsi quanto essi hanno a che fare con la conversione, e cioè con la volontà di compiere un cammino penitenziale che riconosce il peccato, e guida a ritrovare o a rinnovare il rapporto d’amore con Dio e con i fratelli. Altrimenti succede proprio come quando si porta a pulire l’abito della festa, per non sfigurare in qualche occasione speciale; e poi tutto torna come prima, e ci si rimette l’abito di tutti i giorni, magari un po’ macchiato e un po’ rattoppato. Ci sono allora un paio di cose che vanno chiarite. Anzitutto si tratta di capire quello che pensiamo di Dio, se cioè abbiamo a che fare con una specie di contabile che registra puntualmente il dare e l’avere della nostra vita, per tirare le somme alla fine, e presentarci il conto da pagare; o con un Padre misericordioso, per cui crediamo davvero al suo amore. È una questione di fede! E poi si tratta di capire che la vita cristiana non è un insieme di regole da rispettare, ma è l’impegno a entrare un po’ alla volta nella corrente misteriosa e gratuita dell’amore di Dio e ai fratelli. In questa prospettiva allora il peccato non è semplicemente l’infrazione di una legge (per la quale va pagata una multa!), ma è un no detto all’amore di Dio; e bisogna evitare il male per amore, e non per paura dell’inferno! Così la penitenza per la conversione è un atteggiamento da vivere ogni giorno, e non un andare in confessionale, più o meno spesso: è una questione di tutti i giorni e in tutte le situazioni, non alla festa o per la messa! Certamente abbiamo bisogno del sacramento della confessione, per essere sostenuti dall’amore di Dio nella lotta contro le nostre fragilità e le nostre miserie, ma alla fine non conta il numero dei nostri “passaggi in tintoria”, ma la nostra volontà di pentirci davvero  e di cambiare, e conta quello che cresce nella nostra vita, come dono di Dio, anche se a piccolissimi passi. È bene pensarci, se vogliamo mettere la confessione al centro di questa Quaresima del Giubileo, come dice il Papa. Renato Tomasi