DECRETO CONCILIARE

Inter Mirifica

Il Concilio e la Chiesa tra meraviglie ed esitazioni mediatiche

 
Il 4 dicembre 1963 vennero approvati i primi due documenti del Concilio Vaticano II: la costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia e il decreto Inter mirifica sui mezzi di comunicazione sociale. Si trattò forse solo di una coincidenza, ma è interessante notare come, di fatto, i primi interventi del Concilio riguardarono la capacità della Chiesa di “parlare all’uomo del suo tempo”, da un lato riformando i modi del suo celebrare e, dall’altro, gettando le basi per un diverso e più fruttuoso rapporto con i media. 
 
La genesi dei due documenti, tuttavia, era stata estremamente diversa. La riforma liturgica aveva radici remote; era stata a lungo accarezzata, sognata, preparata e fin dall’inizio indicata come uno dei temi che il Concilio avrebbe dovuto necessariamente affrontare. Non così il tema dei mezzi di comunicazione di massa: solo 18 degli oltre 9.000 tra vescovi, teologi e laici interpellati nella fase preparatoria l’avevano indicato come argomento su cui necessariamente pronunciarsi. Fu solo per espressa volontà di Giovanni XXIII dunque che il tema dei media entrò nell’agenda del Concilio e in questo il pontefice mostrò ancora una volta la sua indubbia capacità di cogliere “i segni dei tempi nuovi”. 
 
Anche agli occhi di chi cerca di vedere a tutti i costi le posizioni del Concilio come “aperte e di rottura” rispetto al passato, il decreto Inter mirifica non può, tuttavia, che apparire onestamente nei contenuti piuttosto deludente. Se è indubbio infatti che esso inaugurò da parte della Chiesa uno sguardo più sereno sulle potenzialità dei media (laddove avevano prevalso invece fino ad allora soprattutto la prudenza, se non anche il sospetto), è anche vero che il testo del decreto conciliare venne da subito considerato da molti come poco illuminato. Padre René Laurentin (uno dei massimi periti del Concilio e teologi del Novecento) arrivò addirittura a definirlo – appena un anno dopo la sua promulgazione –  come “banale, moralizzante, gretto e poco aperto al ruolo dei laici”. L’Inter mirifica insomma scontentò un po’ tutti: i “progressisti” perché ancora segnato da un linguaggio censorio e da un’antropologia ingenua, i “tradizionalisti” per la mancanza di esplicite condanne e un’apertura giudicata eccessiva a strumenti potenzialmente tanto pericolosi per la morale e l’integrità della fede cattolica. Il risultato fu compromissorio e vide la riduzione dello schema originale del documento di oltre due terzi del testo e l’approvazione finale con il più alto numero di “non placet” registrato in sede di votazione finale (164 voti contrari). 

I punti deboli dell’Inter mirifica sono sicuramente legati a due problemi di non facile soluzione, per molti versi ancora aperti e di grande attualità. Il primo riguarda i limiti del diritto di informazione; il secondo l’influsso dei media sulla psiche e sul comportamento umano. Il decreto conciliare ebbe sicuramente il merito di mettere a fuoco le questioni, ma assunse a riguardo posizioni semplicistiche che di lì a poco avrebbero dimostrato tutta la loro  insostenibilità.                   
 
Con il Concilio la Chiesa affermò per la prima volta nella sua storia il diritto all’informazione, vedendo in esso una “necessità per i singoli uomini” e un  “contributo efficace al bene comune e alla promozione del progresso” (IM 5). Lo spirito è evidentemente molto diverso da quella paura censoria che aveva animato la gerarchia cattolica fin dall’invenzione della stampa e che aveva trovato il suo apice nel 1832 con l’enciclica Mirari vos di papa Gregorio XVI in cui si condannava fermamente ogni forma di liberalismo religioso, politico e culturale. Il decreto conciliare si premurò di indicare anche le condizioni per un  “retto esercizio di questo diritto” parlando della necessaria veridicità dei contenuti e della convenienza dei mezzi e subordinando il diritto d’informazione al “primato dell’ordine morale oggettivo” (IM 6). Ed è esattamente questo il punto debole del documento. Che il diritto di libera manifestazione del pensiero e conseguentemente quello d’informazione non siano da considerarsi assoluti è opinione condivisa dai più, ma che esso possa trovare il suo limite efficace in un non meglio identificato “ordine morale naturale oggettivo” appare – in un mondo caratterizzato da un crescente pluralismo etico e culturale – del tutto inadeguato. La Costituzione italiana (articolo 21) individua in modo più pragmatico, ma non per questo meno soggetto a critica, come limiti al diritto di espressione attraverso i media la tutela del “buon costume”, della reputazione dei singoli e della sicurezza dello Stato. Il problema di che cosa costituisca dunque il limite del diritto di informazione è urgente e reale, ma non pare che appellarsi a un ordine iscritto nella natura stessa delle cose sia la strada per trovare una risposta. Più che rifarsi ad una teologia della creazione (in cui ritrovare un “ordine naturale”), sarebbe utile elaborare forse un’etica della comunicazione intesa come evento collocato nella storia.
 
 
Il secondo nodo cruciale messo a fuoco dall’Inter mirifica è quello dell’influsso dei media sulle coscienze e dunque sui comportamenti dei singoli. Il decreto conciliare ne parla soprattutto in termini di suggestione, preoccupandosi in particolare dei giovani e degli adolescenti (IM 10 e 12). Pur non essendo detto in modo esplicito, il documento lascia intendere la possibilità che gli utenti dei media possano lasciarsi andare all’imitazione di comportamenti violenti o sessualmente immorali. I media sono percepiti come “persuasori occulti”, dotati di una forza pressoché invincibile che va contrastata dunque più con la forza dell’autorità legittima (civile e religiosa) che con quella della coscienza. Della forza di persuasione dei media erano del resto convinti anche i ricercatori che si occupavano negli stessi anni di psicologia sociale. Studi successivi ridimensionarono molto tale potere suggestivo a favore della libertà del soggetto e misero in luce l’importanza del contesto in cui avviene l’atto comunicativo. Anche tale questione resta tuttavia aperta e di grande interesse.
 
Nel documento conciliare possiamo infine individuare alcuni elementi che hanno caratterizzato l’azione e il magistero successivo della Chiesa sulla comunicazione. Innanzitutto la definizione dei media non come “mezzi di comunicazione di massa”, ma come “mezzi di comunicazione sociale”. Si trattava all’epoca di una terminologia originale e innovativa che rimetteva al centro la relazione e il dialogo affermando come anche attraverso i media l’atto comunicativo non fosse mai asettico e anonimo, ma dovesse riguardare comunque persone, volti, storie. La profezia di questa definizione si è manifestata in tempi recenti con la diffusione di internet e dei social network in particolare (facebook, twitter…). Ed è sempre da questa concezione che la Chiesa maturerà progressivamente la consapevolezza che i media non sono solo mezzi da utilizzare, ma veri ambienti da abitare, nuovi areopaghi in cui testimoniare la bellezza del Vangelo (Redemptoris Missio 37).

 
L’Inter mirifica istituì poi la Giornata mondiale per le Comunicazioni Sociali (IM 18) per formare all’uso dei diversi media e concorrere economicamente al sostegno di quelli cattolici. Dal 1967 tale giornata si celebra annualmente la domenica dell’Ascensione ed è l’unica celebrazione mondiale espressamente voluta dal Concilio Vaticano II. 

Per promuovere l’educazione ai media e coordinare le iniziative ecclesiali a riguardo il Concilio decretò infine l’istituzione degli Uffici comunicazioni sociali (IM 21), oggi operativi a livello nazionale e nella maggior parte delle diocesi italiane, grazie anche al prezioso contributo di laici competenti e preparati. Certo verrebbe da chiedersi se l’impegno ecclesiale per i media non si sia negli ultimi anni esaurito nella creazione e nel mantenimento di queste strutture, avendo l’impressione crescente che sempre più manchino invece cattolici preparati all’interno dei media laici. Già nel 1968 il sociologo Ivan Illich nel saggio Metamorfosi del clero mise in guardia dalla pericolosa tendenza della chiesa post conciliare a organizzarsi burocraticamente rincorrendo il mito dell’efficacia tecnocratica piuttosto che il valore della testimonianza conviviale nei diversi ambienti di vita. Ma forse le due cose non vanno viste in opposizione una all’altra.
 
Per concludere, possiamo affermare che il rapporto tra Chiesa e media resta complesso: l’alleanza auspicata dal Concilio e cresciuta in questi decenni si è sicuramente dimostrata fruttuosa, ma abitare consapevolmente il continente mediatico e dialogare con i nativi digitali esige competenze sempre nuove e l’impegno di laici preparati che sappiano portare i valori evangelici in questa sempre più fondamentale dimensione del vivere umano.  
 
 
Alessio Graziani