Intervista al teologo Brunetto Salvarani

Il punto di vista di uno dei maggiori esperti di Ecumenismo

 
Se dovessimo utilizzare una metafora “barometrica”, direi che siamo passati da un inverno freddo ad una “quasi primavera”». Brunetto Salvarani, teologo, è uno dei maggiori esperti di ecumenismo nonché autore di numerosi libri sull’argomento, tra cui il recente Non possiamo non dirci ecumenici (Gabrielli Editori).
Salvarani, lei quindi si definirebbe ottimista sul dialogo ecumenico?
«No, nonostante Papa Francesco. E non lo sono per quello che avviene nelle chiese locali. Tempo fa ho proposto di fare una “moratoria” di un anno sulla settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Qualcuno si accorgerebbe della sua assenza? Io spero di sì, sarebbe un bel segnale. Il problema è che le ricadute durante il resto dell’anno di questo appuntamento sono molto poche, salvo rare eccezioni. Speriamo che Papa Francesco porti ad un effetto “emulazione”».
 
La visita del Papa alla Chiesa pentecostale di Caserta nel 2014 e quella alla Chiesa valdese di Torino lo scorso giugno, hanno suscitato grande entusiasmo.
«Da Vescovo di Buenos Aires, Papa Francesco era abituato a rapportarsi con altre Chiese. A Torino si è visto cosa significa questa idea del “camminare insieme” che propugna continuamente: incontrarsi, parlarsi, tirare fuori i problemi con franchezza reciproca, senza orpelli. L’incontro a Caserta ha toccato i problemi interni alla Chiesa pentecostale, ma ha anche offerto un discorso straordinario del Papa che ha chiesto perdono per le persecuzioni subite dai pentecostali durante il fascismo. Tutto questo è una specie di piccolo miracolo».
 
Perché secondo lei fatica a passare una mentalità ecumenica nelle chiese locali?
«Perché occorre passare da un ecumenismo inteso come “faccenda per teologi” ad un ecumenismo che sia una modalità del vivere cristiano. Occorre ripensare il linguaggio e la pastorale delle nostre comunità: non parlare più di “chiesa” ma di “chiese” e tutto quello che si può fare assieme, si faccia insieme».
 
Uno dei problemi più sentiti, specialmente dalle Chiese protestanti, è quello della “ospitalità eucaristica”.
«È il tasto più dolente, è vero. Però ci sono molte altre cose che si possono fare, a partire dalle veglie di preghiera che però non devono dare “ospitalità” alle altre chiese ma devono essere pensate e vissute insieme».
 
Crede che in Italia il dialogo ecumenico sia più difficile che altrove?
«Nel nostro Paese pesa ancora molto il discorso delle statistiche: i cattolici sono la stragrande maggioranza. Ma anche 2 milioni di non cattolici non sono poi così pochi. I segni di incontro, però, non mancano. A Pinerolo, la scorsa Pasqua, c’è stato il bellissimo gesto dello scambio del pane: la Chiesa cattolica ha donato il pane per la Cena del Signore alla Chiesa Valdese e questa ha donato il pane per l’Eucarestia. Ma anche Avvenire, in occasione della visita del Papa a Torino, ha parlato di “Chiesa” valdese, non solo di “comunità”».
 
Rispetto alle Chiese ortodosse il rapporto sembra più semplice, o no?
«Lo si è sempre dato per scontato, è vero. C’è una maggiore vicinanza con i cattolici a livello di tradizione. Lo scisma del 1054 è stato riempito nel tempo di significati negativi, come la scomunica reciproca. Concretamente quell’anno ha rappresentato il momento in cui due Chiese molto diverse dal punto di vista linguistico e socio economico, si sono separate. Ma questo non significa automaticamente che ci sia una impossibilità di dialogo».
 
Perché le chiese ortodosse ci tengono a distinguersi in base ai Paesi di provenienza?
«Le Chiese ortodosse sono legate alla nazionalità, per questo sono dette “autocefale”. Ci sono Chiese rumene, serbe, ucraine, russe… Di conseguenza sono poco sensibili ad una comunione interna. Non è tanto una questione di teologia ma di fare i conti con la modernità».
 
Quindi anche all’interno delle singole confessioni farebbe bene un maggiore spirito ecumenico.
«Certo. D’altronde la storia della Chiesa è una storia di Chiese. Basti pensare al Nuovo Testamento e alle Chiese di Alessandria, di Antiochia, di Costantinopoli o di Gerusalemme. Quest’ultima, in particolare è molto significativa perchè è quella che ha rotto con l’ebraismo. Un fatto molto grave che il cardinale Martini definiva “protoscisma”: il prototipo di tutte le rotture».

Andrea FrisonArticolo da La Voce dei Berici di questa settimana