Meneghello e la religione di “Libera nos a malo”

Una teologia semplificata per un mondo compatto

 
MENEGHELLO E LA RELIGIONE un saggio di Luigi Dal Lago
 
Finora nei vari saggi apparsi su Luigi Meneghello e nei molti interventi avvenuti in occasione del primo anniversario dalla sua morte, non ho trovato riflessioni adeguate su questo aspetto del suo capolavoro Libera nos a malo, e mi sembra invece che la lettura attenta del libro offra abbondante materia di riflessione al riguardo, sia “ai pastori di anime” sia a ogni cristiano che voglia prendere seriamente la propria fede.

Quali sono i titoli che ho per intervenire su questo tema? Non sono un italianista, né un critico letterario e neppure un teologo raffinato. Sono però uno, che essendo nato nella Val-di-Là (cioè la valle dell’Agno), da sempre ha amato i libri di Meneghello, per la genialità linguistica e per i ricordi che suscitano. Mi viene in mente, ad esempio, quando i nerostellati venivano a giocare in allenamento con il mitico Marzotto che negli anni Cinquanta militava in serie B e pensavo (in dialetto stretto di valdagnese orgoglioso): “Puariti, quisti da Malo, varda come ch’ i ghe la mete tuta”. Anch’io ho studiato latino e greco a Vicenza, qualche decennio dopo, quando il liceo classico del Seminario rivaleggiava con il Pigafetta, e mi rendo conto di come Meneghello ha imparato benissimo il latino: sa perfino le sfumature del linguaggio liturgico di allora come quando ironizza sul “de profondo lacu et de ore leonis” dell’offertorio della messa per i defunti, finendo con lo spassoso liberanosamaluamen, =liberaci dal luame ! (ivi, p. 92).

Fatte queste premesse, entro finalmente nel tema, segnalando almeno alcuni punti meritevoli di più ampia discussione. E invito altri a entrare nel dialogo.
 
Una teologia semplificata
A proposito di Libera nos a malo, i critici hanno parlato di una teologia “semplificata” che espone fedelmente (con ironico distacco) la catechesi e gli usi religiosi di una parrocchia del Veneto negli anni Trenta-Quaranta del XX secolo. Castigat ridendo mores… certo, ma credo che si impari molto da uno che si professa lontano, dispatriato, eppure nostalgico di quel paese che non esiste più. Il suo occhio disincantato, pur da lontano, scruta, osserva, registra quello che dal di dentro non si vede più.
In realtà si sente già un po’” tradito” ( let down)  di fronte ai cambiamenti avvenuti a metà degli anni Cinquanta con le nuove disposizioni in materia di digiuno eucaristico (ivi, p. 182). Prima di allora uno dei peccati gravi era “toccare l’ostia, masticarla” e su questo insistevano fino all’ossessione gli incontri di preparazione alla prima comunione. È un tipico esempio di come gli aspetti secondari diventavano assurdamente prioritari. Il senso profondo dell’eucaristia, come patto d’amore che si rinnova per iniziativa gratuita di Dio nei nostri confronti, andava completamente perduto, e l’eucaristia inesorabilmente finiva confinata nei ricordi d’infanzia. Qui ci chiediamo: cosa resta oggi della catechesi che si fa con i nostri bambini? Cosa cambia nella religione e che cosa resta (e deve restare) immutato? Ecco alcune prime domande su cui discutere.
Altri aspetti che subito colpiscono nella lettura sono l’ossessione dei peccati, specialmente degli «attinpùri» e l’idea tremenda di Dio: anche le bestemmie erano viste come una liberazione nei confronti di un Dio giustiziere. Su questi due aspetti si possono citare le pagine esilaranti sugli “ adopratori del ciccio” e sul rimprovero del confessore al ragazzetto peccatore: “Eh no, mas-cio!”(ivi, p. 14). Mi domando: come impostare una pastorale/catechesi del sacramento della penitenza che sia segno della misericordia e cammino di libertà? A me sembra che in tutto questo, sia mancato a Meneghello un incontro diretto e personale con Cristo: egli descrive un cristianesimo paradossale, senza Cristo, che non viene quasi mai neppure nominato.
Domina invece la paura dell’inferno e la speranza del Paradiso traluce solo per  le donne di casa. Anche qui sorgono domande: sembra che la religione non sia fatta per gli uomini e le donne sono viste come missionarie “in partibus infidelium”, per convertire e addomesticare i loro barbari compagni (ivi, p. 118). Era così una volta o è ancora questa la situazione nei nostri paesi? La fede si trasmette ancora principalmente per linee ginecologiche?
 
Un mondo compatto
Ma si deve riconoscere che Meneghello descrive un mondo compatto, coerente, dove, a differenza di oggi, esisteva ancora una “common culture, in cui etica e religione alimentandosi a vicenda sorreggevano un mutuo sentimento di appartenenza a una comunità e a una condivisa eredità di valori”, come afferma Roger Scruton. Aver fissato la memoria di questo mondo è forse il merito più grande di Meneghello che dice di se stesso: “In tutto ciò che scrivo e studio cerco di giustificarmi la natura delle cose, se c’è. Ora la natura delle cose sta nelle parole che le nominano. Se si perdono le parole, vuol dire che anche le cose sono perdute. Se non c’è la parola per dirlo, non c’è la cosa. Morendo una lingua, non muore solo un modo di chiamare le cose, muoiono le cose”.
Uno dei paradossi che rendono il nostro autore ancor più interessante (dal punto di vista religioso) è che egli si professa cattolico romano, ateo e anticlericale. Alla futura moglie domanda: “Signorina Katia, lei crede in Dio?” e quella risponde: “No!”, e lui dice tra sé “Questa me la sposo”. E le rimane fedele per tutta la vita.
Certo non dobbiamo mai giudicare la fede di nessuno, neanche quella di un ateo. Ma è lecito fare domande, anche impertinenti, poco rispettose se si vuole e che valgono sia per il credente come per il non credente. In quale Dio si crede? Quale Dio si rifiuta? E se la Madonna del Castello (Santa Libera di Malo) è “fuori dalla Necessità” (ivi, p. 102), qual è questa ananke che sovrasta noi mortali labourers? Ma non è vero anche che Cristo si è sottoposto all’ananke, al dei, all’ oportet me mori ?
Eppure ho colto una nostalgia di infinito in uno dei suoi scritti, L’acqua di Malo ( cf. Opere scelte, p. 1149-1150), in cui il suo sguardo è affascinato dal profilo delle nostre montagne, verso il Sengio Alto, dove uno squarcio di luce e di azzurro gli appare come «un altro mondo, fulgido, la cui bellezza ti minaccia, senti che potrebbe incenerire tutto ciò che sei e che hai»: è forse  un varco verso il trascendente?
Non sono mai riuscito a incontrare di persona Luigi Meneghello: mi sarebbe piaciuto dialogare con lui e finire così: Dai, Gijo,’ol d’on can,  demoghe’n tajo e vardemo vanti!

Luigi Dal Lago