Nomine Vescovili: l’avvicendamento dell’Abate di Bassano del Grappa

Intervista a mons. Renato Tomasi


A settembre mons. Renato Tomasi concluderà, per raggiunti limiti di età, dopo quasi 14 anni, il suo servizio pastorale a S. Maria in Colle a Bassano. «Vado via da Bassano – ci dice – per la stessa ragione per cui sono venuto qui: in un certo momento ti viene chiesto un servizio e con disponibilità cerchi di rispondere».
L’intervista a mons. Tomasi del direttore de La Voce dei Berici Lauro Paoletto Quali sono stati i passaggi più impegnativi di questi anni? «Più che di passaggi parlerei di linee di sviluppo. Una linea è stata la consapevolezza di essere minoranza, però con l’impegno di essere minoranza attiva, non settaria e auto difensiva. La parrocchia si è trovata di fronte a un atteggiamento nuovo con il venir meno del senso di appartenenza e con la polarizzazione delle posizioni che hanno portato a porre anche il discorso evangelico in modo diverso. A questo riguardo basti pensare a temi dirompenti quali l’immigrazione, i profughi». Cosa ha significato questo dal punto di vista della vita ecclesiale? «È un cambiamento maturato un po’ alla volta che ha costretto la parrocchia a rendersi  conto di essere, appunto sempre più una minoranza. Questo ha comportato, per esempio, l’esigenza di una maggiore qualificazione della vita comunitaria per essere minoranza significativa e ha anche imposto un atteggiamento estroverso. Così un paio di volte all’anno, per esempio, il Consiglio pastorale ha preso visione di un problema della città, il lavoro, l’urbanistica, le elezioni nei quartieri, prendendo anche talvolta posizione. Un’idea importante che ha caratterizzato il cammino è la “compagnia della condizione umana”, un modo di essere presenti con simpatia e condivisione di fronte alla vita della città. Questa è stata la chiave interpretativa di quello che abbiamo cercato di vivere». Come hanno risposto la comunità e la città? «Se la comunità ha seguito queste linee di sviluppo con un inevitabile coinvolgimento a cerchi concentrici, comunque credo che il segnale sia arrivato. Anche la città ha colto queste scelte, anche se pure qui dipende: in quella polarizzazione di cui abbiamo detto per qualcuno questa era un’invadenza». Come si è collocato il ripensare le strutture parrocchiali?  «Il discorso delle strutture è l’incrocio di due realtà. Da un lato c’è l’impoverimento comunitario: le nostre strutture dicevano una centralità della parrocchia che non c’è più e quindi diventano insostenibili, dall’altra parte però si è voluto leggere questo come uno dei segni dei tempi per una chiesa più evangelica, una chiesa povera con i poveri. Il discorso di ridurre le strutture è stato un discorso fatto e condiviso con il Consiglio pastorale attraverso diversi passaggi e votazioni Si tratta di una povertà non subita, ma una povertà che diventa consapevolezza evangelica e che ci avvicina ai poveri. E questo è stato un segnale chiaro che ha creato una risposta di notevole generosità». E il cammino di unità con le altre comunità? «In questi 14 anni c’è stato anche un lavoro impegnativo per mettere assieme le quattro parrocchie nella zona pastorale che diventerà unità pastorale. Abbiamo iniziato con una sperimentazione nel 2003 con gli itinerari di fede postbattesimali  per genitori e ora si fa insieme la pastorale giovanile, il centro di ascolto Caritas, le segreterie dei consigli pastorali che si sono ritrovate periodicamente». Come ha inciso la sua esperienza di malattia nella missione  pastorale? «La malattia è stato un momento comunitario molto bello. Io non c’ero e quindi non è merito mio. Quando sono ricomparso e andavo in giro, tutti mi fermavano per strada, anche chi non conoscevo. La malattia mi ha fortemente frenato ed è una delle ragioni per cui vado via. Negli ultimi anni mi è venuto a mancare il rapporto ordinario con le persone, non riuscivo più a fare la visita alle famiglia per esempio. Questa esperienza mi ha però aiutato a capire che se uno vive è perché ci sono gli altri che ti aiutano a vivere». Cos’è per lei l’andare a Magrè, sua comunità natale e come pensa il suo futuro? «Non si sono ragioni particolari personali: sono via da lì da più di 50 anni. Vado in canonica con il vantaggio che lì ci sono persone che conosco. Il distacco poi è sempre faticoso: il parroco non è come il direttore di filiale di una banca. In questi anni si sono stabiliti rapporti importanti e condivisioni profonde. Il futuro lo penso con serenità. Continuerò a fare il prete come sono capace e come le forze mi consentiranno e avrò più tempo per soddisfare certe mie curiosità e passioni». Per Bassano cosa sogna? «Che la chiesa di Bassano sia chiesa nella città con l’idea di una pastorale cittadina che tenga conto dei grandi temi e delle grandi esperienze, una chiesa che unitariamente si pone nei confronti della città. È la prospettiva della chiesa in uscita». Lauro Paoletto

Articolo da La Voce dei Berici di questa settimana che dedica un approfondimento al Vicariato di Bassano del Grappa