Suicidio assistito. L’illusione di essere un (piccolo) assoluto

Una riflessione provocata da un evento di questi giorni

Di fronte ad un fatto così sconvolgente come la decisione di una persona di andarsene “senza salutare nessuno” e di togliersi la vita con il suicidio assistito il commento più opportuno è il silenzio. Nessuno di noi può intuire cosa l’abbia portata a scegliere di concludere così la sua esistenza.
 
E’ inevitabile però che da certi eventi – al di là del rispetto che dobbiamo ad ogni persona – veniamo provocati a interrogarci sul senso o non senso di tali scelte.
 
Penso che una riflessione sulla storia della signora Oriella ci offra, in primo luogo, la possibilità di precisare in modo pertinente il termine eutanasia, termine che spesso viene usato in modo per lo meno ambiguo. Effettivamente la decisione della signora Oriella di togliersi la vita con un suicidio assistito è stata propriamente, almeno per come è stata riferita, una scelta di eutanasia. Ora se è questo che indichiamo come “eutanasia”, e cioè il darsi anticipatamente la morte, non possiamo confondere o chiamare con questo termine tutti quegli interventi o omissioni di intervento che, a fronte di una accresciuta possibilità tecnica, si presentano piuttosto come un doveroso rispetto del morire e che dunque, avendo come obiettivo il voler evitare ciò che comunemente viene indicato come “accanimento terapeutico”, non possono essere equivocati come azioni eutanasiche.
 
Mi sembra non inutile questa sottolineatura perché talvolta si ha l’impressione che nel dibattito pubblico si concentri l’attenzione e la discussione sui casi drammatici nei quali – ripeto – l’attivazione di procedure rispettose della dignità del morire non può essere indicata con il termine ‘eutanasia’. La confusione dei termini fa sì che spesso ci si nasconda dietro questa giusta necessità di rispetto del diritto di morire con dignità per giustificare surrettiziamente appunto la “vera” eutanasia, che potrebbe meglio essere definita come “suicidio assistito”.
 
Ma da dove deriva il bisogno (che dovrebbe essere eventualmente riconosciuto come legittimo diritto) di potersi togliere la vita?
 
Non penso ci sia una risposta univoca e facile. Constato però la fatica crescente, nel nostro contesto culturale, a sapersi accettare nei propri limiti, nella propria finitudine. Se la morte rappresenta la raffigurazione estrema del limite, paradossalmente l’unico modo per non doverne assaporare l’amaro che essa rappresenta è quello di anticiparla, con l’illusione di poterla dominare, di esserene non vittime ma padroni. Uno dei grandi valori che noi oggi, giustamente, esaltiamolo in modo straordinario é la nostra libertà, ma la vera libertà non consiste forse nel sapersi accettare nel proprio limite compreso probabilmente come espressione massima di libertà proprio nel limite ultimo rappresentato dalla morte?
 
L’illusione di essere un (piccolo) “assoluto” ci sta un po’ alla volta rinchiudendo in un “bozzolo” dal cui interno non sono più capace di sentire le voci che mi provengono dall’esterno con la conseguenza drammatica che sono sempre meno disposto a dare e a ricevere dagli altri. Nella misura in cui non riesco a sentirmi in relazione, appartenente, responsabile per qualcuno non sono nemmeno capace di percepire il male che una mia tragica scelte può produrre in chi ancora mi ama.
 
Personalmente sono convinto che quella vita che un giorno ho ricevuto come ‘dono’ trova senso solo nella logica del dono ricevuto e offerto. Può essere, certo, che in alcuni momenti qualcuno percepisca la sua esistenza così povera da avere la sensazione di non aver più nulla da dare! Ma al posto di voler facilmente giustificare alcune scelte come derivanti dalla libertà altrui e dunque come tali da doverle semplicemente rispettare come insindacabili, non potrebbe essere possibile un esito diverso e cioè a sentirci provocati nella nostra capacità di far percepire a chi ci sta accanto la preziosità della sua presenza?
 
E’ vero che in un clima di crescente indifferenza nei confronti del prossimo ci può essere la tentazione di scorciatoie come ad esempio l’illusione di poter risolvere la questione con disposizioni legali permissive o meno, ma in questo modo non si risolve ciò che alla fine rimane legato a quella ricerca di senso che nessuna indicazione legale può avere la pretesa di esaurire. Penso invece che l’impegno per realizzare un contesto meno superficiale e più dal volto umano anche se non sarà certo capace di risolvere tutte le situazioni drammatiche, potrà, forse, far percepire a qualcuno in più che la sua esistenza, anche se povera e limitata, può essere ancora ricca di senso e di valore.
 
Don Giuseppe Pellizzaro
Docente di Teologia fondamentale allo Studio Teologico del Seminario di Vicenza