Suor Rita Giaretta, l’Orsolina che ha fatto pensare il Papa ed aiuta le donne ad amare se stesse

Da 20 anni l'esperienza di Casa Rut a Caserta

 
Suor Rita Giaretta, Orsolina vicentina, il 20 settembre 2013, con altre due religiose, ha incontrato papa Francesco a Santa Marta, a Roma. «Gli abbiamo parlato del nostro lavoro e di Santa Bakhita, che si festeggia l’8 febbraio. “Ci penserò”. Ci ha risposto il Pontefice».
E l’ha fatto seriamente. L’anno dopo ha istituito la prima Giornata di preghiera per le vittime della tratta proprio l’8 febbraio. 

Suor Rita ama il bello. E il suo sforzo più grande è insegnare ad apprezzarlo alle sue ragazze, donne tolte dalla strada. Un fiore, una carezza, l’ordine, un filo di ombretto. «Arrivano a casa Rut con corpi fracassati e visi martoriati – racconta la religosa, a Caserta dal 1995, fondatrice della casa di accoglienza -. La sfida è insegnare loro ad amare il proprio corpo perché è unico e quindi prezioso. Se una donna si vuole bene si cura, torna a sorridere e a sperare». Casa Rut, nella periferia campana, ormai è un’istituzione nazionale; mura discrete, “esperte” dell’intimità violata, della femminilità violentata, della dignità sbattuta a terra o contro il muro, calpestata da “piccoli” uomini frustrati e sfruttatori. E ricostruisce corpi, dentro e fuori.

 
Suor Rita a che punto è il fenomeno della prostituzione in Italia?
«Sognavamo il calo, ma non c’è. Anzi, la presenza in strada sta aumentando, e sono sempre più giovani. I flussi della tratta si sono sovrapposti a quelli dei profughi, e la situazione è peggiorata. La via è la stessa, le donne salgono sui barconi gomito a gomito con i profughi»
 
Di che nazionalità sono, quanti anni hanno?
«Sono soprattutto nigeriane. Qualche ucraina e albanese. Hanno 18-19 anni, ci sono anche minorenni».
 
I loro aguzzini?
«Sono schiavizzate e ricattate da connazionali d’accordo con la mafia locale e con sfruttatori di altre nazionalità. È una rete ben organizzata. Gli interessi economici sono altissimi. Dopo le armi e la droga, quello dei corpi è il traffico che paga di più. Con la differenza che le armi le vendi e le devi rifare, la stessa carne umana la puoi vendere e rivendere, per anni. Le ragazze guadagnano 500-600 euro al giorno e non ne vedono uno, perchè devono pagare debiti di decine di migliaia di euro».
 
Come le aiutate concretamente?
«Offriamo loro una casa, e non le giudichiamo. Attualmente ne ospitiamo sette, con tre bambini. Pochi numeri, ma significativi. Il cammino è lungo, difficile, e ci regala grandi soddisfazioni. Questo mese abbiamo firmato il settimo contratto di lavoro. Nella cooperativa “NewHope” realizzano capi e manufatti a mano, lavorano tessuti africani, sete italiane e danno nuova forma al proprio corpo».
 
Sono tutte schiave o per qualcuna c’è volontà?
«La stragrande maggioranza sono schiave, ricattate, umiliate, costrette. Ci può essere una minima forma di contrattazione per qualche ragazza dell’Est. Ma solo perché c’è un bisogno estremo e molta vulnerabilità. Non vedo libertà neanche in questi casi».
 
Gli italiani, magari cattolici, sono complici della tratta.
«Questo è il dramma più grande. Si parla sempre troppo poco dei clienti. L’identità maschile sta soffrendo. L’uomo deve avere il coraggio di guardare ai sentimenti, alle emozioni. Va aiutato. I nostri preti nelle parrocchie possono fare molto. Lancio loro un appello “prendetevi cura di questi maschi che urlano aiuto”».

  Marta Randon Articolo da La Voce dei Berici di questa settimana