“Davvero il Signore è risorto”

Lettera Pastorale di mons. Beniamino Pizziol alla Diocesi di Vicenza, 8 settembre 2012
 
Di che cosa discutete?
(Lc 24, 25-27)
 
Interpretazione
La domanda di questo viandante sconosciuto suona come una provocazione, che causa nei due personaggi una sorta di meraviglia stizzita: non si può essere all’oscuro di fatti tanto gravi e recenti. Infatti, la morte di Gesù è stata pubblica, come il suo ministero, e questo viandante, che li interroga sull’oggetto della loro discussione, non può che essere un forestiero, uno straniero. I due, uno ha nome Cleopa e l’altro rimane anonimo, “si fermarono, col volto triste” (v. 18b). Il cammino si arresta: il cuore non è più dinamico, ma subisce il peso di una depressione che non consente di andare avanti. E così, i due raccontano al viandante “ciò che riguarda Gesù, il Nazareno” (v. 19), facendo una specie di sintesi del racconto evangelico, privo però della luce della fede. Dicono anche le loro attese nei confronti di Gesù, quanto li aveva affascinati: “Noi speravamo…” (v. 21). Le loro parole tradiscono una visione che Gesù non aveva per nulla appoggiato, vale a dire un’attesa messianica di tipo politico, secondo la quale il regno di Dio è una realtà mondana, che si manifesta in termini di potere e di successo.
I due viandanti di Emmaus implicitamente vogliono così giustificare il loro allontanarsi da Gerusalemme: tutto infatti si è arrestato davanti alla morte e al sepolcro. E se questo è stato trovato vuoto, non significa nulla e le voci delle donne sono solo inattendibili fantasie: “Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’ hanno visto” (v. 24).

Attualizzazione
Dei due discepoli, uno ha un nome mentre l’altro resta sconosciuto. Anche qui vi è un’abile strategia narrativa dell’evangeli- sta: il nome di Cleopa serve ad ancorare alla storia concreta la vicenda narrata. Va ricordato infatti che, nel vangelo di Giovanni, si parla di una “Maria, madre di Cleopa” (19, 25), dando come assodata la conoscenza di quest’ultimo da parte delle comunità delle origini.
Il fatto che l’altro discepolo resti anonimo permetterà ad ognuno, che ascolti con fede il racconto, di potersi riconoscere in lui e fare la medesima esperienza.
Anche noi, come i due viandanti di Emmaus, di fronte a profonde ed inquietanti domande, che si agitano nel nostro cuore, ci chiediamo se Dio non sia per caso straniero alla nostra vita, incapace di capire i problemi che ci angustiano.
Possiamo incontrare difficoltà nel riconoscere Gesù magari dentro certe malattie invincibili o di fronte alla morte, che rimane sempre il mistero più enigmatico della storia. Entriamo in una crisi di fede e, di conseguenza, anche di speranza.
Ebbene, il Signore non è estraneo ad alcun turbamento, ad alcuna difficoltà, anche se noi non sappiamo avvertirne la presenza. Dobbiamo, piuttosto, interrogarci su quali siano le nostre attese nei confronti di Gesù. Dobbiamo chiederci: chi è Gesù per me? Per noi? È facile e quasi normale costruirci un Cristo su misura, capace di entrare senza troppi sforzi nei nostri schemi e programmi. Un Cristo così, che non disturba affatto, non è quello autentico. Occorre anzitutto abbattere questa falsa rappresentazione di Cristo e permettere a lui, alla sua Parola, di ricostruire quella vera. Solo così saremo capaci di dare “un senso” anche agli eventi più dolorosi e più inquietanti.
 


Stolti e lenti di cuore a credere
(Lc 24, 25-27)
 
Interpretazione
Ora, il compagno di viaggio prende la parola e dalla dolcezza passa ad un rimprovero deciso, che deve scuotere i due viandanti: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti” (v. 25).
Il rimprovero  non è segno di mancanza  d’amore,  ma di un interesse profondo, per loro, vedendoli oppressi dalla tristezza e prigionieri di schemi inadeguati. Proprio la morte, che essi hanno interpretato come un fallimento, è il senso più alto della missione di Gesù, perché sta al centro del piano salvifico di Dio e dell’attestazione delle Scritture. Queste, infatti, affermano che il Messia doveva passare attraverso il mistero della sofferenza: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? ” (v. 26). Siamo al cuore teologico del brano. Qui è sinteticamente espresso il mistero pasquale nelle sue due parti costitutive, quella della sofferenza e quella della gloria. Gesù cita Mosè e i profeti. Molto probabilmente saranno stati citati i canti del servo del Signore, soprattutto il quarto, dove si proclama, in forma chiara, che “uno muore per gli altri” (Is 53,6). Si afferma, per la prima volta, che la sofferenza può avere la valenza redentiva: “Per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).
Gesù non è venuto a spiegare la sofferenza in forma astratta, né a sopprimerla, ma a riempirla con la presenza della sua croce.
Da allora “tutta la sofferenza che c’ è nel mondo non è la sofferenza dell’agonia, ma il dolore del parto” (Paul Claudel).
Luca presenta il Risorto che spiega ai due tutto ciò che nelle Scritture si riferiva a lui. Appare chiaro il principio guida con cui la Chiesa delle origini si accosta alle Scritture d’Israele: esse sono testimonianza del piano divino, che si realizza nel Cristo, vale a dire in Gesù morto e risorto.

Attualizzazione
I due di Emmaus avevano detto di sperare che sarebbe stato Gesù a liberare Israele: ora egli comincia a liberare le loro menti, aiutandoli a comprendere ciò che aveva paralizzato il loro cammino di fede. Le Scritture sono come l’aiuto divino per comprendere il suo piano d’amore e di salvezza per gli uomini e rileggere la propria esistenza nell’ottica di Dio.
Nelle Scritture vi è il segreto per decifrare anche il senso del dolore umano e di avvenimenti che resterebbero altrimenti incomprensibili e deludenti. Nell’oscurità più profonda la Parola di Dio, contenuta nelle Scritture, ci raggiunge come una luce capace di rischiarare noi, il nostro cuore e ciò che stiamo vivendo. Si tratta di aprire il cuore, di accoglierla, di lasciarsi condurre per mano. Senza pretendere di sapere tutto e subito.
Potenza della Parola che un po’ alla volta riesce a smuovere certezze ritenute granitiche e fa affiorare una fiducia e una speranza che sembravano impossibili.
Potenza della Parola che consola e rende ragione, rimprovera ed illumina, si mostra dolce e al contempo esigente, mettendo ognuno di fronte alle sue responsabilità e decisioni.
Potenza della Parola che riesce a scaldare un cuore ormai freddo e a renderlo ardente, capace di accendere altri cuori.
Il risultato lo si può leggere con chiarezza nel discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore” (At 2,37).

 

 
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01/07/2013