PROLUSIONE ALL’APERTURA DELL’ANNO ACCADEMICO DELLA ACCADEMIA OLIMPICA(Vicenza, Teatro Olimpico, 16 ottobre 2012)

LA TESTIMONIANZA DEI CATTOLICI NELLA VITA SOCIALE
(RIFLESSIONI PASTORALI)


Saluto il Presidente, il Consiglio e voi tutti presenti a questa prolusione per l’inaugurazione dell’Anno accademico 2012 ‘ 2013.
Cerco subito di definire gli ambiti che mi riguardano, a partire dal titolo, che già conoscete dal pieghevole ricevuto: “La testimonianza dei cattolici nella vita sociale”, e dalla precisazione: “Riflessioni pastorali”.
Partiamo dall’aggettivo “cattolico” che è bene precisare, perché definisce l’ambito del mio tema, anche se etimologicamente si tratta di un termine che racchiude un’idea di universalità, ???? ????, cioè che va verso il tutto. Comunque, io considero il cattolico colui che è radicato nella fede in Gesù Cristo e nella Santissima Trinità e che vive questa fede non a livello individuale, separato, ma all’interno di una comunità, quindi con una forte dimensione di appartenenza che noi chiamiamo Chiesa. E il suo compito non è di militare in qualche ambito della vita sociale e politica, ma è di testimoniare. Anche qui il termine testimoniare, testimone deriva dall’espressione ter stis, cioè colui che sta terzo rispetto ad altri due. Alla luce di queste precisazioni terminologiche, quali sono i due fattori dentro i quali il cattolico si pone come testimone? Il primo è la Chiesa a cui appartiene, la sua appartenenza ecclesiale, il secondo è il mondo dentro il quale lui è inserito. Il cattolico, il cristiano cattolico non è a latere del mondo, come ricorda la Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II ‘Gaudium et spes’, che parla della Chiesa nel mondo contemporaneo e non della Chiesa di fronte al mondo contemporaneo. Dunque, non una Chiesa a lato del mondo, ma dentro il mondo, perché la religione cristiana è la religione del Dio incarnato.
Passiamo ora alla vita sociale che intendo in tutte le sue dimensioni: culturale, civile, politica, economica, scientifica, artistica ed ecologica. La mia lettura di questa complessa realtà è volutamente pastorale per evitare di invadere ambiti che non mi spettano. Io sono un vescovo, chiamato a guidare la bella Chiesa di Vicenza, che agisce all’interno di un territorio, ed è in comunione con tutti i vescovi e con il Papa. Pertanto, in questa riflessione faccio riferimento soprattutto alle comunità reali, cioè quelle che incontro nelle visite alle parrocchie, alle associazioni, ai movimenti, alle realtà del volontariato, e poi faccio riferimento alle persone, sacerdoti e laici, che incontro costantemente e che rappresentano tante realtà, non necessariamente ecclesiali, ma anche culturali, scientifiche, associative, imprenditoriali presenti sul territorio della Provincia e della Diocesi di Vicenza.
Precisati i miei ambiti, entro nella riflessione, che non prevede il dialogo con gli ascoltatori, ma che mi auguro possa svilupparsi nel tempo in modo semplice, sincero, costruttivo al fine di far crescere la conoscenza ed il rispetto reciproci e l’impegno della società civile e della Chiesa nel servizio all’uomo.
Mi soffermo sugli ultimi vent’anni della vita sociale, politica, ecclesiale del nostro Paese e della nostra Chiesa italiana. Sono passati quattro lustri da tangentopoli e dal collasso della democrazia cristiana, il partito dei cattolici italiani, che non era il partito cattolico, come erroneamente spesso si afferma, anche perché si tratterebbe di un ossimoro, dal momento che partito vuol dire parte e cattolico vuol dire verso il tutto. E’ quindi corretto parlare di partito dei cattolici italiani. Mi riferisco a questi vent’anni, da tutti noi ricordati perché vissuti, per capire la contemporaneità, che non poco ci preoccupa. Come Vescovo guardo la realtà a partire dal compito che mi è affidato, non quindi con la sensibilità di un politico, che viene a fare un discorso politico, ma da responsabile ecclesiale a capo di una comunità, che condivide gioie e dolori, speranze e delusioni di tutti i cittadini italiani. In questo contesto laico, rispettoso, proprio perché laico, di tutti i soggetti in campo in fedeltà ad una sana laicità, mi permetto di fare alcune osservazioni, alcune riflessioni.
In questi vent’anni, dal mio punto di vista, sostenuto da riflessione e da lettura attenta della situazione ma anche delle differenti linee di pensiero esistenti, si sono verificate delle situazioni che esprimo con le seguenti categorie.
La prima: i cattolici sono entrati in una situazione di cripto-diaspora, di dispersione nelle varie aggregazioni politiche e partitiche, entrandovi a titolo personale e perdendo così tutta la dimensione di rappresentanza collettiva e sociale. Gli studiosi definiscono questo fenomeno con la categoria di nascondimento, di diaspora, di dispersione.
Una seconda categoria è la religione civile da intendere come tentativo di sfruttamento della dimensione religiosa ed etica come collante di una società civile, ossia di una formazione politica che si assume la difesa di quei valori, che la Chiesa considera non negoziabili, magari non in virtù di un’adesione di fede ma di una convenienza politica. Ecco, allora, il rischio di creare una rappresentanza politica identificabile con una religione civile, definibile in questi termini perché accetta i valori cristiani, favorendo adesione e simpatia verso detta formazione. Si tratta di rischi che abbiamo corso durante la storia repubblicana, come voi tutti ben comprendete.
Non possiamo, poi, trascurare che c’è stata una tendenza, da parte del mondo cattolico, alla separatezza, come ha scritto il prof. Ernesto Galli Della Loggia: “I cattolici sono sentiti come in un maso chiuso”, cioè si sono raccolti nella dimensione intra-ecclesiale e hanno lasciato l’impegno politico-sociale ad altri. Ed è chiaro che in questi vent’anni i vescovi hanno corso un grande pericolo, che anch’io ho sentito sulla mia pelle, nel mio cuore, nella mia mente, pur essendo vescovo solo da quattro anni. Qual è stato il pericolo che hanno corso i vescovi? Quello della supplenza rispetto al laicato cattolico, e questo ha creato grossi problemi, perché i vescovi hanno svolto un compito che spettava ai laici, visto che si è trattato di intervenire direttamente nella vita pubblica, politica, sociale, determinando delle forti reazioni non solo nella Chiesa ma anche nel mondo civile e sociale. Io sono dell’avviso che i vescovi tornino a fare le guide del popolo di Dio loro affidato. Compito, questo, caratterizzato dall’ascolto di tutti, dal dialogo con tutti. Spetta, invece, ai laici cattolici intervenire e dare testimonianza all’interno del mondo sociale e politico.
Un altro dato da tenere presente riguarda l’aumento dell’indifferenza o dell’indisponibilità all’impegno socio-politico da parte dei cristiani, dovuto anche ad un fatto oggettivo, cioè l’assorbimento generoso del laicato nella ministerialità intra-ecclesiale. Questo aumento della ministerialità intra-ecclesiale, dovuto anche al calo vistoso e consistente del clero, delle religiose e anche dei fedeli stessi, ha aggravato il disimpegno verso la politica. I cristiani si sono sentiti di entrare a pieno titolo nel mondo ecclesiale, parrocchie, associazioni, movimenti di ispirazione cristiana, abbandonando il compito, uno di quelli coessenziali del credente cattolico, di dare testimonianza in tutti gli ambiti dell’umana esistenza, in tutti i settori della vita pubblica. Eppure, in questi vent’anni nel mondo cattolico non sono mancati gli inviti, le esortazioni a questo tipo di impegno, come testimonia, per esempio, il magistero pontificio nelle persone di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, punto di riferimento non solo per i cattolici, ma per tutti gli uomini “di buona volontà”, come dice il Concilio Vaticano II, cioè persone alla ricerca della verità e del bene comune, valori propri dell’umanità a prescindere dal credo religioso. Il cardinale Martini, riflettendo su questa realtà, divideva l’umanità in modo schematico tra uomini che pensano (cristiani e non cristiani, atei) e uomini che non pensano (cristiani e non cristiani, atei).
A questo punto non possiamo non ricordare la grande enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI, che si pone sulla linea della dottrina sociale della Chiesa, la quale si è soliti far cominciare con l’enciclica ‘Rerum novarum’ di Leone XIII del 1891. Dopo tale pionieristico documento il magistero pontificio ha pubblicato altri importanti documenti, quali la ‘Quadragesimo anno’ (1931) di Pio XI, la ‘Pacem in terris’ (1963) di Giovanni XXIII, la ‘Populorum progressio’ (1967)  e la Lettera apostolica ‘Octogesima adveniens’ (1971) di Paolo VI, per arrivare alla ‘Sollicitudo rei socialis’ (1987) e alla ‘Centesimus annus’ (1991) di Giovanni Paolo II. A questo ricco patrimonio dobbiamo aggiungere il ‘Compendio della dottrina sociale della Chiesa’ del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (2004). Non si è trattato solo di emanare testi di riferimento dottrinale, ma anche di suscitare incontro, dialogo, dibattito come testimoniano le settimane sociali, frutto dell’intuizione del beato Giuseppe Toniolo. Ripresi dopo un periodo di sospensione, questi appuntamenti sono risultati significativi per il cammino delle comunità cristiana e lo testimonia anche l’ultima edizione tenutasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010 sul tema “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”.
È chiaro che la storia non si costruisce solo con i documenti, ma essi sono delle pietre miliari, dei riferimenti preziosi, delle testimonianze imprescindibili, necessari per fare una lettura della storia la più obiettiva possibile, evitando la deriva emotiva, che provoca una lettura emotiva, contingente, approssimativa dei fatti.
Noi abbiamo bisogno di disegnare un quadro di riferimento e questi documenti sono importanti, ma da soli sono insufficienti. Comprendiamo, allora, l’interesse e la curiosità che hanno suscitato, anche a livello di mezzi dell’informazione, il Forum delle persone, delle associazioni di ispirazione cattolica e del mondo del lavoro tenuto a Todi il 16-17 ottobre del 2011, che vedrà tra poco la sua seconda edizione. Perché ha suscitato tanto interesse? Perché, secondo alcuni, quel forum era da intendere come l’inizio della rifondazione del partito dei cattolici, della ricostituzione di un nuovo partito dei cattolici dopo il crollo degli anni 1992-1994. Importanti nomi del mondo intellettuale italiano hanno aperto un interessante dibattito, pubblicizzato anche dal ‘Corriere della sera’, quali Dario Antiseri, Massimo Teodori, Andrea Riccardi, Vittorio Possenti, Franco Monaco, Umberto Curi, Ernesto Galli della Loggia, Alberto Melloni, Giovanni Reale. Tra i vari interventi mi piace richiamare quello del prof. Antiseri, che, parlando della ricostituzione del partito dei cattolici, affermava che oggi non è pensabile un partito di tutti i cattolici, visto che questi sono in diaspora, in dispersione, presenti in tutti i partiti dell’arco costituzionale. Ma,  osserva ‘appare necessario un partito di cattolici liberali, un partito sturziano, di cattolici liberali e solidali sotto il segno della dottrina sociale della Chiesa’. E aggiungeva, usando un termine a mio parere non felice: ‘La truppa è pronta e i disertori appaiono essere i generali’. Non so se qui c’è un riferimento ai vescovi che non hanno immediatamente coltivato ed approvato la ricostituzione del partito, pur stimolandola, ma facendo comunque capire ai cattolici che è indispensabile la loro presenza dentro il mondo sociale, politico, economico, imprenditoriale. Ricordo anche altri interventi, a seguito di quello del prof. Antiseri. Il prof. Umberto Curi sostiene che non ci deve essere questo partito, motivando la sua posizione a partire dalla critica al rapporto fede e politica, dove la fede non ha nulla a che fare con le categorie politiche di destra o di sinistra. L’eventuale dialogo può esistere a livello personale o anche in altre sedi. Così pure, dice sempre Umberto Curi, i cattolici non possono in qualche modo costituire una specie politica a sé stante, tale da essere soggetto di un trattamento particolare. Secondo me qui non c’è una visione, almeno da come la intendo io, della laicità che tra poco cercherò anche di spiegare. Il prof. Ernesto Galli Della Loggia in un intervento dal titolo “L’irrilevanza dei cattolici” dice così: “Il sistema politico non ha bisogno di un partito cattolico viceversa ha bisogno di una voce cristiana e dunque anche cattolica, di un’iniziativa politica alta che rechi il segno di quell’ispirazione cristiana di cui l’Italia ha sicuramente bisogno”. Un’affermazione chiara che evidenzia la necessità di questo tipo di presenza cattolica nell’ambito politico.
Ma veniamo alla presenza sociale qualificata di tante persone che si dichiarano cattoliche o si ispirano al cattolicesimo nella loro azione. Si tratta di una realtà che colgo continuamente nelle mie visite alle comunità, alle aggregazioni, alle varie istituzioni presenti sul territorio. Nella Diocesi di Vicenza, per esempio, molti dei sindaci che guidano le varie amministrazioni locali provengono dalle comunità parrocchiali, dove hanno compiuto un cammino di formazione teologico-pastorale, di formazione socio-politica, che li ha portati a gestire il bene comune con lo spirito dei padri di famiglia. Ne avrò incontrati almeno una sessantina di questi amministratori con i quali ho avuto modo di dialogare costruttivamente. Sono gli stessi sindaci che frequentano la chiesa non per ostentazione, ma per convinzione, perché sono persone serie, che vivono all’interno del mondo cattolico. Non intendo, in questo modo, tessere elogi gratuiti, dal momento che la fede personale, il cammino di vita caratterizzato dal limite spetta al Signore giudicarli. Resta, comunque, il fatto che queste persone offrono una testimonianza, che troviamo anche all’interno delle altre realtà della nostra complessa società. Penso ai cosiddetti corpi intermedi, alla famiglia, alla scuola, alle associazioni, alle imprese, all’artigianato, all’agricoltura, alle unità locali sanitarie, alle ipab, al commercio. In queste diverse aggregazioni trovo persone qualificate, di ispirazione cristiana che tengono il tessuto connettivo. Quindi noi siamo davanti ad un corpo sociale del nostro Paese, sano, vitale, anche se oggi è provato dalla crisi, che qualifichiamo come economica, ma che è una crisi soprattutto etica. Questa consapevolezza di appartenere ad un corpo sano e vitale deve incoraggiare e sostenere il cammino che ci sta davanti, nonostante le occasioni di grande debolezza, di grande fragilità che si presentano e che naturalmente vanno corrette e superate.
Una parola vorrei spendere per ricordare il mondo del volontariato, che è spesso di ispirazione cattolica, e che nella Diocesi di Vicenza offre delle testimonianze preziose, che costituiscono il vero collante di una società sana, vera, autentica che chiamiamo società reale. Noi possiamo essere fiduciosi nel futuro perché questa realtà non è stata intaccata.
Vengo ora alla fase finale, dopo aver esaminato questi vent’anni, senza addentrarmi nella lettura degli eventi politici che si sono succeduti e che voi ben conoscete. Cito solo i più importanti: gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti; la fase bipolare della nostra politica; le guerre sanguinose in Iraq, Afghanistan, Siria; le cosiddette ‘primavere arabe’; la pesante persecuzione dei cristiani, soprattutto in Africa, caratterizzata non solo da attacchi verbali, ma da attentati che hanno provocato la morte di tanti cristiani.
Un Vescovo che si trova in una Diocesi così bella, ampia, ricca di persone e di tante realtà, che cosa propone non solo ai cristiani, ma anche a coloro che desiderano entrare in dialogo, collaborare per il bene comune, visto che il bene comune non riguarda solo i cattolici o i non cattolici o gli atei, ma tutti? Prima di tutto fermo la vostra attenzione sul dato appena espresso, che costituisce un punto di convergenza rafforzato da un testo fondamentale che è la Costituzione repubblicana del 1948.
Desidero formulare delle proposte utili per la testimonianza dei cattolici nella vita sociale. Uso il termine testimonianza e non militanza, perché quest’ultimo, dal mio punto di vista, ha un significato più pesante, anche se non va demonizzato. Rivolgendomi ai cattolici in quanto tali, a coloro che appartengono o che dicono di appartenere al mondo ecclesiale, propongo una visione compiuta dell’essere cristiano-cattolico nella Chiesa e nel mondo secondo quattro dimensioni costitutive, delle quali normalmente la quarta gode di poca considerazione anche a livello ecclesiale. La prima è la dimensione sacramentale liturgica; la seconda quella in ordine alla parola, alla catechesi, all’evangelizzazione; la terza è riferita alla carità e alla solidarietà. Di solito ci si ferma qui, ma io aggiungo la quarta dimensione, che deve essere assunta come costitutiva accanto alle altre e tutte e quattro interconnesse. Mi riferisco all’impegno sociale e politico, alla formazione all’impegno sociale e politico. Infatti, il cattolico non può prescindere da questa dimensione, quasi fosse riservata a pochi, a coloro che nutrono questa passione.
Il cristiano compiuto dovrebbe caratterizzarsi per le quattro dimensioni costitutive appena menzionate.
Una conseguenza di quanto affermato sopra, e che riguarda noi vescovi, è la formazione di un laicato cattolico capace di pensare e di agire politicamente, ispirandosi al Vangelo, alla dottrina sociale della Chiesa e allo studio delle scienze politiche ed economiche In questo senso il vescovo, nella propria diocesi, dovrebbe cercare di favorire le scuole di formazione socio-politica e di inserire la dottrina sociale della Chiesa anche nelle scuole di formazione teologica e pastorale, che, nel caso di Vicenza, sono almeno una decina disseminate sul territorio diocesano. Si tratta di proposte formative rivolte ai cristiani, preoccupate di garantire non solo un buono e necessario livello accademico e scientifico, ma anche criteri di lettura e discernimento della realtà quotidiana e concreta. In tal senso, ho già fatto la proposta, accettata anche dalla Conferenza episcopale triveneta in seguito al II Convegno ecclesiale di Aquileia, di costituire negli istituti superiori di scienze religiose il biennio di specializzazione in dottrina sociale della Chiesa. Una opportunità rivolta al mondo cattolico, ma aperta a tutti coloro che fossero interessati. Infatti,  sono contrario ai confini ben marcati, così definiti dove o stai di qua o stai di là. Noi abbiamo delle identità precise, che sono però sempre identità aperte. Se tutto questo è vero, mi pare che il criterio fondamentale dell’incontro dei cattolici con tutti gli altri uomini e donne che lavorano nelle varie formazioni politiche, sociali, partitiche, debba individuarsi nella Costituzione repubblicana. È necessario un dialogo aperto, ripartendo dalla Carta fondamentale dello Stato italiano, basato sulla pari dignità dei soggetti coinvolti, aventi identità differenti, e cercando insieme significativi punti di convergenza e di collaborazione. Qualcuno dice che bisognerebbe arrivare a dei compromessi nobili dopo aver dialogato, dopo essersi ascoltati a vicenda e poi lasciando le decisioni alle procedure democratiche. Questo è un metodo affascinante, vincente su quello fondato sui conflitti e sui contrasti. Questo non significa ignorare la naturale coesistenza di una maggioranza di governo e di un’opposizione, ma ci sono modi civili, democratici, responsabili per vivere queste dinamiche. E questo la Costituzione ce lo insegna. I costituzionalisti ci ricordano che nella Carta costituzionale c’è stata la convergenza di tre tradizioni, soprattutto nei principi costitutivi: la tradizione liberale, la tradizione cattolica, la tradizione socialista. È dunque necessario il continuo riferimento alla Costituzione, perché rappresenta l’ambito, la casa entro cui si svolge la dinamica del pluralismo. Nella Costituzione troviamo i principi, i valori, le norme che regolano il dinamismo democratico, norme condivise, garanzia di rispetto e tutela delle diversità che distinguono i cittadini italiani e le rappresentanze di vario ordine. Diversità che vanno conservate, perché sono una ricchezza.
La Costituzione fu descritta dall’illustre giurista Arturo Carlo Jemolo, che pur non era tanto favorevole ad essa, come frutto degli “anni del roveto ardente”. È chiaro però che il contesto sociale, politico e storico degli anni ’40 del secolo scorso era diverso da quello contemporaneo, in quanto segnato dalla tragedia della seconda guerra mondiale. In quegli anni gli italiani furono accumunati, nonostante le diversità, da una grande spinta ideale per costruire una nuova società, più libera, più eguale, più giusta, più solidale. Per fare questo individuarono un nucleo essenziale di quanto doveva essere riconosciuto ad ogni uomo come tale, sempre e dappertutto. Nella Costituzione ci sono alcuni principi, sui quali non mi fermo, ma che voglio ricordare. Sul primo desidero soffermarmi un po’, perché è il principio personalistico. Leggendo la Costituzione, il termine “persona” compare più volte in quanto il più adatto a coniugare in sé l’individualità irrepetibile di ciascuno di noi, aperto alla socialità, luogo del suo essere e divenire. L’uomo non è un individuo solo davanti allo Stato, ma è inserito nella fitta trama di relazioni sociali nelle quali si realizza la sua personalità; è titolare di diritti inviolabili antecedenti lo Stato. La persona è anteriore allo Stato, come anche la famiglia al servizio della quale lo Stato si pone con politiche di sviluppo, di sostegno e di aiuto.
Se la persona è al centro dell’ordinamento delle istituzioni pubbliche, allora il principio personalistico porta al ricupero e alla valorizzazione delle formazioni sociali in quanto realtà funzionali al divenire della persona. A mio avviso, oggi stiamo andando verso una deriva individualistica, pericolosissima, laddove ciascuno ha e sente il bisogno di avere dei diritti, che sono però individuali, non posti in relazione con l’alterità ampiamente intesa. Urge ritornare a questi principi vitali per trovare il modo di vivere insieme, a livello dialettico, che è fondamentale, ma anche di rapporti belli, sani, costruttivi per tutti.
La Carta costituzionale parla anche di altri principi, quali la sussidiarietà, la solidarietà, la pace, il bene comune e la laicità. Mi soffermo ora su quest’ultimo. Spesso quando si parla di laicità si declina il termine per esprimere ciò che è fuori dalla Chiesa, dalle religioni, dal contesto del bene comune. Qui incappiamo in un errore di fondo, dal momento che laicità non significa imparzialità delle istituzioni pubbliche dinanzi alla varietà delle posizioni culturali, ideologiche, etiche, religiose. Sembra quasi che ci debba essere un’area franca, libera, dove tutto è accolto al di fuori delle religioni. Questa interpretazione della laicità non è vera né onesta, perché, in primo luogo, la laicità è il riconoscimento di tutti i soggetti in campo, aventi il diritto e il dovere di entrare in dialogo tra di loro. Tale confronto, collocato in un contesto democratico e grazie agli strumenti della democrazia, ha la possibilità di vedere espresse le differenti posizioni grazie al voto, all’obiezione di coscienza, al referendum, alle leggi emanate dal Parlamento. Ciò avviene in una logica, che vede tutti i soggetti presenti sul territorio entrare con diritto in campo, realizzando così una vera laicità, dove ognuno è riconosciuto, accolto, rispettato, ascoltato.
Anche il principio del bene comune è ben definito all’interno nella nostra Costituzione. Esso si riferisce al bene di ogni uomo e di ogni donna, al bene di tutti gli uomini, di tutte le donne, al bene di tutto l’uomo, di tutta la donna in tutte le sue dimensioni, sociale, lavorativa, affettiva, relazionale, culturale, familiare. Recita la Costituzione conciliare ‘Gaudium et spes’: “Il bene comune si concreta nell’insieme di quelle condizioni della vita sociale con le quali gli uomini, le famiglie, le associazioni possono ottenere il conseguimento più pieno della propria perfezione’. Ciò significa che dentro al mondo, alla società, ai dinamismi anche politici del proprio paese la persona, insieme agli altri, ha il diritto di trovare tutti gli elementi necessari alla sua crescita e sviluppo e di togliere gli equivalenti impedimenti alla realizzazione piena della propria personalità. Vedete come ritorna il concetto di persona come singolo, come individuo irrepetibile, come individuo che non può fare a meno del socius, della società, dell’altro.
A ben vedere questi principi hanno agito nel tempo come forze vitali, capaci di favorire l’espansione della Carta costituzionale e in questo senso possono essere ancora alla base di un autentico rinnovamento della nostra società.
Una parola, infine, vorrei spendere sull’identità del buon politico, alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Credo che ce ne sia urgente bisogno, visto il progressivo impoverimento e tradimento del concetto di impegno politico dagli anni della ricostruzione post-bellica ad oggi. Alla fine del secondo conflitto mondiale l’impegno politico era sentito come missione, servizio, diaconia, non come professione. Certo, avevamo comunque politici ben preparati e non mi riferisco solo ai cattolici, ma anche ai liberali, ai socialisti. Lungo il cammino successivo questi ideali di riferimento si sono persi, arrivando alla situazione attuale, dove, per amore di verità, dobbiamo riconoscere che ci sono persone che credono in determinati valori e per questo si impegnano, lottano e, a volte, pagano di persona. E’ però preoccupante la realtà della politica, oggi, in Italia; per questo è fondamentale per un buon politico, un politico serio, ricuperare lo spirito di servizio. Ma non basta solo questo, non basta essere generosi, bisogna essere competenti e bisogna essere capaci di mettere a servizio e far fruttificare questa competenza ed efficienza, cioè questa capacità di incidere sul tessuto sociale. E questo deve essere fatto attraverso un’azione trasparente e pulita di cui abbiamo urgente bisogno. In questo ambito, la Chiesa è chiamata a formare le persone, a prepararle a questo servizio, accanto a tutte le altre formazioni politiche e sociali che credono nel bene comune del nostro Paese. Cosa bisogna evitare? Il ricorso alla slealtà, alla menzogna, al parlar male, alla calunnia, alla delazione. Un impegno, questo, da estendere con chiarezza anche al mondo dell’informazione, a volte incapace di dare un contributo serio e costruttivo, favorendo invece tensioni e scontri. Bisogna tornare a questa serietà, come anche evitare lo sperpero del denaro pubblico, che va amministrato ispirandosi ai criteri dei saggi padri di famiglia, colpendo così il tornaconto di pochi, i clientelismi, l’uso di mezzi illeciti per  mantenere o aumentare ad ogni costo il potere ottenuto.
Non spetta a me dare giudizi sulle persone, ma richiamare la necessità improcrastinabile di cambiare strada per recuperare serietà, fiducia e credibilità, la sento un’azione doverosa da parte mia in qualità di cittadino e di vescovo.
I cristiani impegnati in politica devono rispettare l’autonomia rettamente intesa delle realtà terrene come evidenzia la Costituzione conciliare “Gaudium et Spes” al n. 76: “È di grande importanza, soprattutto in una città pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli individualmente o in gruppo compiono in proprio nome come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori”. C’è, infatti, una diversità tra le azioni compiute dai singoli, come aggregati nel mondo politico, e quelle in nome dei loro pastori. La Chiesa consapevole del suo ufficio, della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico. Essa è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana e non potrà mai identificarsi con un sistema politico o realtà sociale.
Nel 2013 celebreremo i 1700 anni dell’Editto di Milano del 313, dovuto all’imperatore Costantino, con il quale venne concessa la libertà religiosa. Ebbene, la Chiesa da allora ha sempre vigilato per non cadere nella gabbia dell’identificazione con un preciso regime. Quando, purtroppo, ciò si è avverato, si è trattato di una dolorosa ed umiliante sofferenza. Bisogna, allora, vigilare alla luce delle parole di Gesù nel Vangelo, quando, interpellato sul dovere di pagare i tributi, risponde allo scriba, che gli pone la domanda: “È lecito pagare le tasse?”, dicendo: “Mostrami la moneta”. E, invitando a guardare di chi era l’immagine impressa sulla moneta, Gesù risponde: “Date a Cesare quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio”. È necessario rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio e quindi occorre che i cattolici si impegnino in un’opera di discernimento volta a tradurre le grandi indicazioni che la dottrina sociale della Chiesa continua a dare, mediante regole, iniziative, modelli di vita. Occorre elaborare proposte argomentate, a partire dal bene comune, base sicura e condivisa per acquisire consensi e solidarietà fra tutti gli uomini e le donne di buona volontà.


‘ Beniamino Pizziol