Lectio magistralis di don Rolando Covi

Testo della prolusione tenuta all'apertura della Scuola di Formazione Teologica a Schio il 6 novembre scorso

“Chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17).

Parrocchia e ministeri in una Chiesa sinodale.

 

 

Introduzione

Tutto pare concorrere alla fine. Oltre alla situazione conflittuale che attraversa tutti gli ambiti sociali, oltre alla paura che nasce dal cambiamento climatico, oltre ad un impoverimento generale di risorse economiche che avanza silenzioso come una pericolosa nebbia, oltre alla presenza così devastante della guerra (solo per citare gli aspetti più emergenti), ci troviamo ad affrontare un cambiamento radicale dal punto di vista ecclesiale, che si esprime in un evidente calo numerico[1].

Se questi dati sono segno di una fine, a che serve allora parlare di ministerialità? Se invece ci troviamo in una nuova inculturazione del Cristianesimo in occidente, allora ha senso questa sera affrontare il tema: lo rivela la voce dei giovani, che sfidano la Chiesa verso un cambiamento.

«Nei giovani, che sono già il presente, vi sono gli indizi del futuro; guardando a loro tutti possiamo cominciare a figurarci il tempo nuovo in cui stiamo entrando. (…)  Questo non significa che ogni loro giudizio vada preso come vero senza discernere, ma che molto di quanto essi dicono ci espone ad una responsabilità impegnativa ed entusiasmante allo stesso tempo: quella di rileggere il Vangelo a partire da questo ascolto, per chiederci quanto di esso abbiamo perduto, annacquato, impoverito, dimenticato. L’ascolto delle loro parole ci spinge ad un nuovo ascolto del Vangelo, che forse diamo troppo facilmente per conosciuto. Questo ascolto, turbandoci, ci fa alla grazia di uscire da una sintesi data troppo per acquisita verso la consapevolezza che il Cristianesimo “non esiste ancora” (Collin, 2020)»[2].

 

Non abitiamo dunque un semplice aggiustamento organizzativo: ci troviamo a tutti gli effetti in una fase di re-inizio. C’è una forma di Chiesa che sta scomparendo e questo cambiamento ci interroga non tanto sulle sue azioni, quanto sul significato della comunità cristiana in questo contesto. Siamo chiamati a riscoprire l’origine: uno sguardo capace di vedere fratelli e sorelle intorno a noi; il dono della propria vita al modo di Gesù. La comunità cristiana è segno e strumento di questa chiamata[3]. Ci è richiesto innanzitutto uno sguardo rinnovato: troppo spesso guardiamo le persone che stanno intorno a noi classificandole presto in buone o cattive, dentro o fuori la Chiesa. Nel Vangelo invece il Signore, quando rivolge lo sguardo alle folle, è pronto a cogliere i segni del Regno che stanno crescendo pur nei limiti del vivere umano.

Se «nessuna riforma della Chiesa e nella Chiesa cattolica è possibile se non si affronta lo snodo delle figure ministeriali e delle forme di esercizio del ministero»[4], allo stesso tempo ogni parola sulla ministerialità va collocata dentro l’orizzonte appena descritto, perché sia generativa di novità evangelica.

 

Le sfide in atto

Ascoltiamo alcune sfide dalla voce dei ministeri che ora sono in atto nelle nostre comunità parrocchiali. Tra quelle raccolte (responsabili di gruppi sinodali, di comitati parrocchiali, di gruppi della parola, di servizi caritas, di catechisti; presbiteri e diaconi permanenti; vescovi), ne condivido quattro che mi pare riassumano il sentore di tutte.

Le prime due, riguardano lo sguardo sulle nostre parrocchie:

 

Finora la Chiesa è stata molto “dipendente da”, cioè dipendente da una figura carismatica, da un’autorità, da degli eventi… ecco questa dipendenza è un problema reale che io vedo oggi nella Chiesa e che si traduce, adesso, in questa situazione anche un pochettino di “transizione” che viviamo, perché siamo alla ricerca appunto di un modo di essere Chiesa, di uno stile, di un rapporto con un contesto che sta davvero distinguendosi da noi; vedo molto questo imbarazzo. Eravamo dipendenti da tanti preti e da un ministero svolto in un certo modo e adesso bisogna che inventiamo qualcosa.

 

Vedo un volto di Chiesa affaticato e declinato sostanzialmente su alcune attività che sono caratterizzate dal momento celebrativo, dai momenti sacramentali. (…) C’è una macchina che viene dal passato, fatta soprattutto di ritualità, di celebrazione dei sacramenti. E una macchina sproporzionata rispetto alle forze di chi la gestisce, per cui poi trovo operatori, preti e laici, affaticatissimi, che vivono sempre molto spesso di lamento. Parlano male di quello che succede, vivono le esperienze che vanno a gestire come un qualcosa che bisognerebbe fare in un altro modo, ma intanto lo si fa. Vedo una Chiesa carentissima di pensiero e soprattutto una Chiesa che non ha capito che, per essere veramente efficace, deve portarsi lì dove la gente vive, con modalità diverse rispetto a quelle della parrocchia come l’abbiamo ereditata da Trento, con quella forma che assolutamente non garantisce più una presenza efficace.

D’altra parte, vedo che in giro c’è domanda spirituale, soprattutto su due fronti: l’ambito del dolore e del lutto (penso per esempio alla recente richiesta di un hospice di avere una presenza spirituale laicale inserita nell’equipe, in una forma diversa dal solito cappellano); penso poi agli incontri con i giovani e gli adolescenti, che mostrano una grandissima attenzione alla testimonianza di fede (non può essere un caso che questo desiderio continui a ripresentarsi ad ogni incontro con loro).

 

Le seconde due invece esprimono lo sguardo verso il proprio ministero: la prima è di chi ha coordinato un gruppo sinodale; la seconda è di un parroco.

 

Io mi sono sentita una cucina, quel posto accogliente, dove senza tante formalità, hai voglia di raccontare, raccontare pezzi della tua vita che ti piacciono, che non ti piacciono, i momenti di crisi, di difficoltà, i momenti belli, anche i sogni. Però, come dire, mi è sembrato di essere riuscita a mettere le persone che ho avuto la gioia di incontrare veramente a proprio agio, in una situazione di semplicità, senza le formalità, cioè come staresti lì a chiacchierare davanti al caffè.

 

È pesante la sensazione è di essere incontrato più per il ruolo che hai, che per quello che sei. Le nostre relazioni sono quasi sempre funzionali. Per molti di noi l’indole non sarebbe quella di fare il generale. A volte c’è la sensazione di dover fare la strategia di guerra, tu che sei un caporale, perché di generali non ce ne sono più. Devi correre, rispondere a mille cose, come se fosse ancora l’unica parrocchia, ma l’unica parrocchia non c’è. Poi essere l’unica parrocchia dava il senso della risposta: le parrocchie piccole ti davano il senso della risposta, ti vogliono bene o non ti voglio bene, ti hanno capito o non ti han capito, così anche nello scherzare. Adesso che ne hai tante non hai più ritorno, non sai più se quello che dici interessa, se non interessa, non sai più come fare se questa cosa è passata o non è passata; alle volte non hai nessuna sensazione di ritorno e questo affatica tanto. Se c’è una cosa che sta affaticando il ministero non è quello che fai, ma la mancanza di ritorno. Penso alla sensazione che vivono certe mamme di famiglia, che ne hanno tanti e che dicono: “Mi tratti come io fossi un albergo”. L’idea dell’albergo, un po’ così, fa dire alla mamma: “Non sono una mamma di famiglia, ma sono solo un albergo, devo fare questo, però io, come io, non ci sono”. Questo è un po’ la sensazione che vivo.

 

Sono racconti che parlano da sé. Riprendo solamente alcune parole chiave: dipendenza dall’unico ministero, percepito come fonte di ogni carisma; fatica sotto il peso di una “macchia sproporzionata”, che imbriglia dentro un meccanismo, impedendo di dare ascolto al nuovo che avanza; gioia per una modalità nuova di incontro, sperimentata per poco, ma ricordata con immagini familiari (anche i giovani sognano la Chiesa come una cena tra amici); peso di un ministero, quello del parroco, che impedisce reali legami con le persone.

Potremmo continuare con altre suggestioni. Non pretendo di tratteggiare una sintesi completa della teologia del ministero nella situazione pastorale attuale; vorrei invece rileggere queste sottolineature alla luce di due domande, per poi affrontare piste di risposta grazie all’ascolto di un testo biblico.

 

Forma di parrocchia

Da molto tempo parliamo di “fine della civiltà parrocchiale”. Si tratta di un fenomeno accettato e studiato in ambito teologico-pastorale, ma quanto viene percepito nella prassi e come è vissuto da chi lo vive sulla propria pelle ogni giorno? La parrocchia, strutturata per assorbire ogni aspetto religioso della società, viene ora svuotata non da una contestazione aperta, ma da una serena non adesione alle sue forme. Pensata come esito di una evangelizzazione compiuta, ora si ritrova a dover rispondere ad un appello missionario inaspettato. Linguaggi, appuntamenti, celebrazioni, ministeri organizzati per gestire e accompagnare una fede generata altrove (principalmente in famiglia e nel contesto culturale), sono diventati insufficienti davanti ad una domanda di spiritualità che non riescono ad intercettare. E se permane una ricerca del sacro, questa è vissuta dentro scelte libere e personali[5]. Una tensione acuita dal fatto che la forma canonica risente ancora dell’epoca cristiana[6]. In ogni incontro parrocchiale, prima o poi, questa situazione viene nominata. Il punto non è semplicemente descriverla, ma è capire come abitarla. «Dovremmo dispiacercene? Accettarla come un fatto compiuto? O intraprendere una controffensiva? E, soprattutto: che cosa significa l’annuncio del Vangelo in queste condizioni? Come possiamo essere presenti come Chiesa all’interno di una società come questa? Bisogna ricristianizzare la società?»[7]. E forse ancora più in profondità, è questa la serie di domande che si ripetono quando si rientra dopo una celebrazione o la riunione del consiglio pastorale:

«il Cristianesimo può considerare e apprezzare la cultura moderna, secolare e non religiosa, come la situazione normale in cui compiere la missione? O deve continuare a ritenere questa situazione un grande pericolo e riunire tutte le forze per invertire il corso degli eventi? Può la Chiesa accettare i suoi limiti e trovarsi a suo agio in questa posizione? Oppure la sua missione universale ha come obiettivo ultimo la cristianizzazione di tutta la società?»[8].

Nei secoli, la parrocchia ha subito molti cambiamenti. Verso dove sta andando? Le parole di un profeta come don Tonino Bello risuonano ancora vere:

«Quali sono le condizioni perché la parrocchia torni a incidere profondamente nel tessuto socioculturale dei nostri tempi? Penso che siano tre: che la parrocchia sappia riscoprire la sua vocazione missionaria, come è stato all’inizio (è stata infatti una frantumazione missionaria, una dislocazione missionaria, una base per la missione); che sappia guardare in alto, alla struttura, al vescovo, alla diocesi; che sappia guardare in basso (ai poveri). (…) Se ancora la nostra presenza non incide sul tessuto socioculturale della nostra popolazione è perché il messaggio di Gesù Cristo non è completamente liberato. Rassomiglia alla fiocina dei fucili subacquei, che sembra liberarsi, ma dopo un po’ di metri si arresta perché legata dalla corda di nailon che poi la tira indietro. Io non vedo l’ora che giungano per noi, sotto questo profilo, tempi più difficili. Che ci tolgano quella beffa di congrega»[9].

 

Non si possono introdurre figure ministeriali nuove senza ripensare anche la forma della parrocchia, mettendo in relazione riflessione e prassi[10]. Dal modello di Chiesa infatti dipende il modello di ministero: tra i due c’è una relazione inscindibile[11].

 

Forma di ministero

Nonostante la riflessione sia avanzata in direzione diversa, il ministero ordinato, in particolare quello del presbitero, continua a rivelarsi nella pratica come l’unico modello per pensare anche altre forme di ministerialità, declinate soprattutto in maniera univoca sulla dimensione sacerdotale, a scapito di quella di evangelizzazione e di guida. Nascono così ministeri di supplenza: solamente il presbitero ha il dono di gestire, controllare e dare vita a tutta l’attività pastorale; quando è impossibilitato a raggiungere un determinato luogo in un certo tempo, allora lo sostituisce un supplente. Oppure ministeri di delega: il ministero ordinato ha ancora tutta la responsabilità della missione, ma concede qualcosa di essa, dando possibilità di agire ai battezzati in un determinato ambito. Si possono attivare in altra forma ministeri di collaborazione: si tratta di tutti quei ministeri di fatto (catechisti, ministri della comunione, operatori caritas, animatori d’oratorio, consigli pastorali, …) che nei saluti finali di un evento o nel biglietto di auguri sono definiti “collaboratori del parroco”. Si fondano sul battesimo, ma sono soprattutto pensati per la conservazione della parrocchia in quanto tale: non si va a giudicare le singole persone, ma il sistema nel quale sono inserite. Solamente in alcuni casi si dà la corresponsabilità: la parrocchia è guidata insieme, per esempio in forma di equipe, e la partecipazione – la parola più delicata tra quelle che fondano il cammino sinodale – è vissuta nella sua effettività.

Le quattro forme di rapporto tra presbitero e ministeri rappresentano i passaggi storici delle nostre comunità, ma allo stesso tempo riassumono relazioni compresenti, sia nello stesso ministero come nella stessa parrocchia.

«I quattro modelli suppongono modalità diverse di essere presbitero, come responsabile di una comunità: dal modello della supplenza, dove c’è una sorta di monarchia assoluta, a modelli di una vera e propria condivisione del governo. Il quarto modello disinnescherà, se riusciamo ad andare in questa direzione, la questione del ruolo femminile. Se il governo delle responsabilità parrocchiali potrà essere partecipato, allora uomini e donne potranno effettivamente partecipare alle decisioni.  Tutte le sintesi sinodali lo chiedono»[12].

 

Non si tratta allora di pensare la ministerialità in vista della mancanza di presbiteri: si realizza al massimo una collaborazione, molte volte una supplenza e una delega. Per assurdo, l’attività di ministeri battesimali finisce per apparire concorrenziale alla missione dei preti, creando un conflitto di identità che ha bisogno di essere accolto e affrontato, pena il creare un corto circuito che blocca ogni sviluppo. L’analisi della situazione apre una sfida: «non si tratta tanto di pensare a figure ministeriali nuove, quanto prima di tutto di definire la forma di esercizio ministeriale di tutte le figure già presenti o “creabili” nel futuro»[13]. Se la mancanza di preti è di fatto la causa scatenante di ogni riforma, essa rischia di determinarne pesantemente anche lo sviluppo, se non è accompagnata da un pensiero ecclesiale maturo. E ne è prova il fatto che spesso ci si attivi per nuove ministerialità battesimali solamente per far funzionare l’organizzazione parrocchiale, più che per l’annuncio e la testimonianza del Vangelo nella cultura e nel contesto sociale[14]. È un rischio presente anche nel caso di responsabilità di cura pastorale affidata a laici, con un prete moderatore: si può ridurre ogni ministero al “fare”, anche al “fare perché tutto si faccia” del presbitero che coordina e lo stesso vale nell’ambito liturgico.

 

 

 

 

Quando (ri)nasce un ministero

Come affrontare queste sfide? Mi pare interessante metterci in ascolto di un brano degli Atti degli Apostoli, in particolare il brano di At 10,1-11,18, con un’attenzione previa alla narrazione della Chiesa delle origini:

«a tale esperienza fondativa la Chiesa deve continuamente tornare per verificare se quanto sta vivendo corrisponda all’intenzione che si è manifestata nell’esperienza di unità di persone e popoli diversi. Ma sia l’esperienza cronologicamente originaria sia quella che si riproduce nei tempi successivi non sono la figura compiuta: nessun tempo della Chiesa è quello definitivo e quindi modello da riprodurre. Il fatto di riferirsi all’esperienza attestata dal Nuovo Testamento non vuol dire che si ritenga questa quella riuscita in forma compiuta; vuol semplicemente dire che in essa si rivelano gli elementi strutturali di ogni esperienza ecclesiale. (…) L’ esperienza originaria è la condizione di possibilità di quelle successive e quindi essa entra come elemento costitutivo di queste. Ma nello stesso tempo si deve affermare che le nuove esperienze sono esse stesse frutto dell’azione di Dio, non semplice esito di una qualsivoglia fenomeno storico: in ogni esperienza ecclesiale che accade in un luogo in un tempo determinati si attua il mistero della Chiesa»[15].

 

Tenterò di rileggere il brano che narra una conversione, ma non prima di tutto di Cornelio, quanto di Pietro. Se infatti si vuole parlare di conversione non in senso morale, ma come difficile accoglienza da parte della mentalità umana – sempre segnata da una cultura e da una religione determinate – del disegno di Dio, la narrazione descrive la conversione di Pietro[16]: ci fornisce quindi gli elementi con i quali Dio continua a generare un ministero.

«L’incontro di Pietro e Cornelio a Cesarea costituisce un vertice del libro degli Atti»[17]. Lo dimostra la lunghezza narrativa, che supera quella della conversione di Paolo e del viaggio a Roma; lo rivela la cura che il narratore pone nella costruzione della trama; lo testimonia la presenza numerosa di interventi divini. Di fatto, è il punto culmine dell’azione missionaria di Pietro, che poco dopo lascerà il testimone a Paolo: il cristianesimo termina di essere una setta giudaica per aprirsi al mondo dei pagani.

Il racconto è strutturato attorno a tre città: Cesarea, dove abita Cornelio; Joppe, dove abita Pietro; Gerusalemme, luogo della prima Chiesa. Si sviluppa in quattro atti, ma i cambiamenti dei personaggi permettono di identificare ancor meglio sette scene. Esse sono incastonate secondo un’abile regia, che dà ritmo al tempo e coinvolge il lettore nella presenza dell’azione di Dio, vero protagonista.

La presenza del discorso diretto interrompe la semplice narrazione: la parola viene utilizzata per esprimere la riflessione dei protagonisti su se stessi, attraverso un continuo movimento di ridondanza; in altre parole, la stessa esperienza è raccontata più volte, ma con un continuo cambio del punto di vista. Luca allena così il lettore ad un lavoro di interpretazione, grazie alla riformulazione dello stesso avvenimento, come già accade per la conversione di Paolo. In questo caso, però, «la costruzione narrativa raggiunge un livello di sofisticazione senza pari in tutta l’opera dedicata a Teofilo; da questo punto di vista, la nostra sequenza può essere considerata un capolavoro di Luca»[18]. Il confronto tra la prima versione della visione di Cornelio e l’ultima permette di intuire il significato profondo di questo procedimento: Luca intende rendere simbolico questo avvenimento, un passaggio che segna per sempre la storia della Chiesa.

L’incontro tra Pietro e Cornelio avrà un peso fondamentale nell’assemblea di Gerusalemme: Luca mostra come questo avvenimento ha un ruolo programmatico. Lo presenta prima di tutto come evento fondatore, non come eccezione; in secondo luogo, ne mostra la volontà divina, non un semplice frutto di un’iniziativa personale, pur carismatica; in terzo luogo, rivela che le resistenze non sono all’esterno della Chiesa, ma dentro di essa. «Luca cerca di mostrare che Dio si è imposto sulla sua Chiesa recalcitrante per indurla ad aprirsi alla missione universale»[19].

Tutta la struttura è articolata in due codici, che si possono definire “linee di senso”: una linea orizzontale, descritta attraverso i luoghi (le tre città e le due case) e attraverso molti verbi di movimento; una linea verticale, che esprime il rapporto con Dio: la preghiera di Cornelio, l’estasi di Pietro, il salire e scendere di Pietro, lo Spirito che scende sull’assemblea radunata nella casa. Il radicale cambiamento della linea orizzontale (l’incontro tra Pietro e un pagano) è garantito dalla linea verticale, cioè dal continuo intervento di Dio.

Dopo questa premessa, il presente approfondimento si concentra soprattutto sulla conversione del ministero di Pietro, che assume forme nuove grazie all’incontro con Cornelio.

 

La vita. Luca fa di tutto per mostrare come Cornelio viva un corretto rapporto con Dio. La sua presentazione è fin da subito positiva: privo di quell’empietà che solitamente veniva attribuita ai pagani; ricco del timore del Dio vero, insieme a tutta la sua casa; concreto nel dono attraverso le frequenti elemosine; desideroso di incontrare i fedeli di Israele. È una persona che non può che suscitare attenzione da parte dei credenti[20].

Mi pare una descrizione che dice fin da subito una postura centrale: ogni ministero non parte da una propria iniziativa, ma ha origine nella ricerca di vita buona, di spiritualità, di incontro con Dio che in tante sfumature è presente anche oggi nei cuori, nelle menti, nelle storie di molte case.

 

La preghiera. Pietro si trova in un luogo aperto: lo spazio anticipa ciò che accadrà, cioè un’esperienza di apertura. In secondo luogo, sta pregando: per Luca la preghiera esprime spesso «il momento privilegiato nel quale l’essere umano è accessibile al progetto salvifico di Dio ed è invitato ad aprirvisi»[21]. Ciò che accade è una sorpresa per Pietro: Dio lo sorprende con un’azione. Pietro vede il mondo che si apre alla terra; una voce, che esprime rivelazione, invita a mangiare animali considerati impuri, dichiarando con forza che dal cielo non viene nulla di impuro. In questo modo, la visione non entra nella complicata casuistica di ciò che è proibito o ammesso, ma va alla radice della questione: è Dio stesso a decretare che tutto è puro. È interessante questo passaggio molto concreto nel cammino di Pietro: Luca parte dalla realtà ed è cosciente che l’accoglienza dei pagani passa attraverso il superamento delle norme riguardanti i cibi: i confini di una comunità sono precisati dalla decisione di chi è ammesso a tavola.

La preghiera è il luogo dove ogni ministero scopre sempre nuova l’apertura di Dio, che sorprende con i suoi inviti inaspettati.

 

Gli incontri con coloro che non appartengono al “nostro gruppo”. Non è sufficiente però la visione, nel clima di preghiera, per comprendere l’invito di Dio. Pietro, in questo momento, è molto imbarazzato e insicuro. Si trova ora all’interno, mentre alla porta bussano i delegati di un ufficiale romano, quindi impuro. È qui che interviene lo Spirito: parla raramente negli Atti, ma quando lo fa, segna un salto di qualità nel cammino di evangelizzazione. Tre sono i verbi con i quali invita al cambiamento: mettersi in piedi, scendere, andare. (cfr. quell’alzati e va di At 8,26 con Filippo). È un’indicazione chiara: chiede di agire senza esitare e di riconoscere che anche gli inviati hanno la stessa origine.

Ora è l’incontro a spiegare la visione: Luca mostra come la Parola si incarna in vite umane. È così che Pietro riascolta la storia della visione di Cornelio e il motivo di quella chiamata. Il narratore però sottolinea due elementi precisi: prima di tutto, rafforza l’immagine positiva di Cornelio, perché viene definito giusto; in secondo luogo, precisa che a Pietro è chiesto di entrare nella sua stessa casa.

Pietro allora lascia la sua abitazione (che è già un alloggio poco comune per i giudei, in quanto un conciatore di pelli è considerato impuro), ma non da solo: lo fa con altri, sei persone appartenenti alla comunità giudeo-cristiana di Joppe. L’iniziativa diventa comunitaria e ufficiale allo stesso tempo.

Ogni ministero vive di incontri con coloro che non appartengono al proprio gruppo e allo stesso tempo è generato in una comunità.

 

La comune umanità. Pietro entra gradualmente nella nuova realtà, in due tappe, prima nella città e poi nella casa: la distanza da superare non è solamente spaziale, ma è quella tra due mondi, tra due persone, tra due visioni della vita. La dimensione comunitaria è sottolineata da alcuni vocaboli che identificano l’ “essere con” di quell’incontro.

Il primo gesto di Cornelio, quello della prostrazione, viene fermato attraverso il riconoscimento di una prima uguaglianza, quella dell’essere entrambi uomini. Il terreno dell’umano diventa un piano di uguaglianza fondamentale.

La dichiarazione di Pietro è delicata: lo stile è solenne, ma i termini sono scelti con cura, per evitare espressioni peggiorative, sia quando descrive le persone (parla di stranieri, non di pagani), sia quando chiarisce la loro posizione rispetto a Dio: essi non sono contro la legge di Dio, ma sono oltre un registro morale e legale. Con finezza, Luca vuole porre questa apertura dentro una continuità con tutta la storia della salvezza, pur nell’apertura a nuove esistenze. Il cuore della dichiarazione è questo: «Ma a me Dio ha mostrato di non dichiarare nessun uomo profano e impuro» (At 10,28b). È un cambiamento rivoluzionario: ora il rapporto tra profano e impuro non è più tra gli animali, ma tra gli uomini. L’origine non è in una parola di Dio, ma in ciò che lui ha mostrato a Pietro: la conversione teologica di Pietro è frutto di una serie di parole e di azioni tra essi concatenati.

Ogni ministero si appoggia al desiderio comune di essere veramente umani, oltre ogni divisione, un desiderio che si rende manifesto attraverso parole e azioni.

 

L’annuncio secondo il Vangelo che è Cristo. Pietro concentra il suo annuncio sull’azione di Gesù e sul tema dell’universalità. Ora Pietro ha superato la perplessità che inizialmente lo accompagnava. A partire dalla sua storia con l’umanità, può affermare che Dio non fa preferenze; una prospettiva che ha il suo fondamento non tanto nella creazione, quanto sul futuro, cioè sulla possibilità di essere salvati: «per essere ammessi alla salvezza, Dio non guarda all’apparenza, né all’appartenenza religiosa, né alla storia della persona»[22]. In positivo, afferma che in ogni nazione, chi teme Dio e pratica la giustizia, trova il suo gradimento. L’accento non è sull’autenticità della fede, ma sull’appartenenza ad ogni nazione: in questo modo non è perso il ruolo del popolo di Israele, ma ne è superato l’esclusivismo. Pietro può dire questo alla luce della Scrittura e dopo aver visto il comportamento di Cornelio. È l’evento di Cristo che rivela l’imparzialità di Dio: il Risorto che mangia con i suoi, da una parte dà forza alla loro testimonianza, e dall’altra la descrive attraverso una commensalità, proprio quella che Pietro sta costruendo.

Ogni ministero ha il suo fondamento sulla bella notizia che Gesù è per tutti.

 

L’azione dello Spirito. Ancora una volta Dio sorprende Pietro, con la discesa dello Spirito, che oltrepassa i confini del popolo eletto per raggiungere gli “impuri”. Dio ha il controllo della situazione: la sua presenza non è frutto della pietà umana, ma è scelta libera, gratuita, immeritata, eccedente. Se prima l’unica modalità di accedere alla comunità cristiana era il processo pentimento/conversione/fede/battesimo/remissione dei peccati/dono dello Spirito (cfr. At 2,38-41), ora è accaduto il contrario. Lo Spirito ha preceduto l’azione sacramentale della Chiesa e Pietro deve prima di tutto riconoscerne l’evidenza, per poi completare l’opera con il battesimo. In tutto questo cammino, il protagonista indiscusso è Dio ed è a partire dalla sua azione che Pietro può difendersi dalle contestazioni della comunità cristiana.

Ogni ministero nasce dallo stupore dell’opera dello Spirito che precede con i suoi doni ogni evangelizzatore, che deve prima di tutto inchinarsi davanti alla sua azione.

 

La difesa davanti alla comunità. Nell’ultima scena, Pietro è contestato da coloro che già appartengono alla comunità: non tutti, ma quanti sono «della circoncisione». Il motivo è semplice: i non giudei, mangiando insieme ai giudei, rompono le regole della purità rituale. È la stessa mormorazione rivolta a Gesù: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!» (Lc 15,2). Il problema non è il battesimo, ma le regole alimentari, cioè la coesistenza tra diversi cristiani nella stessa comunità. È la questione della vita quotidiana, senza la quale ogni progresso teologico resta astratto. Dopo la narrazione degli avvenimenti, questa volta con lo sguardo di Pietro, che ha accolto l’azione di Dio, è espressa la frase radicale: «Chi ero io per porre impedimento a Dio?». In gioco non è una regola, ma una comunità che può decidere se impedire o favorire l’opera di Dio.

Ogni ministero ritorna a una comunità, accetta di dover rispondere delle sue azioni, ma scopre che il suo fondamento è nel creare le condizioni perché l’opera di Dio sia accolta.

 

Conclusione

Le preziose suggestioni fornite dall’ascolto del brano degli Atti non hanno risposto puntualmente alle questioni prima sollevate, ma hanno permesso di avviare un percorso di ripensamento di quanto stiamo vivendo nella direzione corretta. Di fatto, la struttura parrocchiale che abbiamo ereditato ha bisogno di riscoprire l’universalità della fede: di fatto fino a pochi decenni fa non era una questione di cui occuparsi. Nata per questo, sviluppata come stabilizzazione di questa scoperta, ora è chiamata a ritrovarla come sorgente della sua esistenza. Di conseguenza, attorno a questa esperienza nasce e rinasce ogni ministerialità battesimale differenziata, nelle sue diverse espressioni («sacramentale, ministero ordinato e matrimonio; istituito, lettore, accolito, catechista ecc.; di fatto, un’ampia varietà di servizi anche piuttosto occasionali, privi di determinazione giuridica»[23]).

Il ministero di Pietro è di fatto un ministero della soglia o, potremmo dire, “delle soglie”. Il cambiamento geografico, come visto, realizzato grazie agli interventi divini, realizza un ministero che collega, che esce ed entra continuamente. È un movimento che già accade nelle nostre comunità, ma che potrebbe essere maggiormente valorizzato e sostenuto: si pensi al ministero dell’ascolto, a quello del dialogo con i giovani che hanno lasciato la Chiesa, al ministero della valorizzazione degli ammalati[24] o a quello dell’accompagnamento del lutto.

Il cambiamento che stiamo vivendo è paragonabile per portata a ciò che avvenne una sola volta nella storia, il passaggio dal giudeo-cristianesimo al greco-cristianesimo[25]. Accogliere questo passaggio con l’aiuto di quello può individuare strade ancora inesplorate, nello stupore dell’azione di Dio che sempre precede.

[1] E. Castellucci, Il peso leggero. Spunti per una pastorale snella. Messaggio agli operai del Vangelo delle diocesi di Modena-Nonantola e Carpi, 2024, https://www.chiesamodenanonantola.it/lettera-pastorale-2024-2025/ (9.10.2024),

[2] P. Bignardi, Conclusioni, in R. Bichi – P. Bignardi (a cura), Cerco, dunque credo? I giovani e una nuova spiritualità, Vita e Pensiero, Milano 2024, 225.

[3] Cfr. G. Routhier, Quale futuro delle chiese d’Occidente? Come re-inventare, l’antica chiesa in un contesto sempre più mondiale?, «Studia Patavina» 69 (2022) 101.

[4] S. Noceti, Una Chiesa tutta ministeriale? Prospettive per una riforma sinodale-missionaria, in F. Zaccaria, (a cura), Parrocchie: ministerialità e partecipazione, Il pozzo di giacobbe, Trapani 2024, 93.

[5] Cfr. L. Vantini, Prefazione, in J. De Kesel, Cristiani in un mondo che non lo è più. La fede nella società moderna, LEV, Città del Vaticano 2023.

[6] cfr. La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della chiesa” (2020). Tra la parte propositiva (3-41) e quella normativa si avverte la duplice ispirazione che non trova ancora adeguata composizione

[7] De Kesel, Cristiani in un mondo che non lo è più, 20.

[8] De Kesel, Cristiani in un mondo che non lo è più, 92.

[9] T. Bello, La parrocchia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, 26.29. Il presente testo appartiene ad una relazione tenuta alla settimana teologica-pastorale del 1982, che aveva per tema “Comunione e Comunità”. «Prima di tutto è necessario che sappia riscoprire la sua vocazione missionaria. Le nostre parrocchie sono troppo sedentarie. Sono accasciate sotto il fardello pesante di innumerevoli strutture organizzative. Hanno perso di slancio perché non hanno più la stessa leggerezza. Esauriscono il loro tempo e il loro impegno nei rapporti ad intra. Gli impegni ad extra, quelli cioè con chi non crede più, sono pressoché nulli. Le nostre parrocchie non conoscono più l’ansia kerigmatica, quella cioè del primo annuncio: Gesù è morto ed è risuscitato per noi. Si sono specializzate (se pure l’hanno fatto) in catechesi; si sprecano (a volte anche eccessivamente) in corsi interminabili sui catechismi dei fanciulli, dei giovani, degli adulti. Ma non dovremmo porci seriamente l’interrogativo se nella nostra zona sia più opportuno accentuare la dimensione kerigmatica, quella cioè del primo annuncio? Cari amici, le nostre parrocchie non sono comunità missionarie a sufficienza. Sono carri merci sui binari morti delle stazioni. Attendono i consumatori dei beni sacramentali, ma non vanno. Ragionano ancora in questi termini, con un apparente e comodo omaggio alla libertà: “Se vogliono, noi stiamo qui. Se non vogliono, peggio per loro”. Quando la potenza dello Spirito passerà accanto alla nostra parrocchia salentina e le rivolgerò l’invito che Pietro rivolse al paralitico della Porta Bella: “Alzati e cammina?” È chiaro che per riscoprire la sua vocazione missionaria la parrocchia deve riscoprire la sua vocazione alla povertà. (…)». Bello, La parrocchia, 26-28.

[10] Cfr. D. Vivian, Nuove ministerialità laicali. Un’opportunità per la cura pastorale della comunità, «La Rivista del Clero Italiano» 89 (4/2008) 299.

[11] Cfr. Vitali D., I ministeri in una Chiesa sinodale. Oltre il modello tridentino, I, «La Rivista del Clero Italiano» 103 (9/2022), 615.

[12] E. Castellucci, Supplenza, delega, collaborazione o corresponsabilità, in R. Covi A. Pozzobon, Rigenerare la parrocchia. Verso una conversione missionaria, EMP, Padova 2024, 154.

[13] «Davanti alla sfida di immaginare la “Chiesa del futuro”, la riflessione sui ministeri deve accogliere tutta la forza della tradizione, nel suo coniugare memoria e profezia: questo chiede di radicarci ancor più profondamente nella sorgente della fede e di sviluppare la traditio apostolica nell’oggi e insieme di immaginare forme adeguate al futuro del “noi” ecclesiale». Noceti, Nuovi ministeri per una riforma viva, 72.

[14] Cfr. Vivian, Nuove ministerialità laicali, 303. Ritornano alla mente le forti parole di papa Francesco nella lettera al card. Ouellet: «Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come nella sua attività quotidiana, con la responsabilità che ha s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato un élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quello che lavorano in “cose da preti” e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella vita quotidiana per vivere la fede». Francesco, Lettera al Cardinale Marc Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, «Il Regno. Documenti» 61 (7/2016) 203.

[15] G. Canobbio, Quale riforma per la Chiesa?, Morcelliana, Brescia 2019, 19-20.

[16] Cfr. A. Barbi, La conversione di Cornelio At 10,1-11,18, in M. Laconi, (a cura), Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli, Elledici, Torino 2002, 489.

[17] D. Marguerat, Gli Atti degli Apostoli, 1. (At 1-12), EDB, Bologna 2011, 415.

[18] Marguerat, Gli Atti degli Apostoli, 1, 418.

[19] Marguerat, Gli Atti degli Apostoli, 1, 423.

[20] Cfr. A. Barbi, Cornelio (10,1-11,18). Percorsi per una piena integrazione dei pagani nella Chiesa», «Ricerche storico bibliche» (8/1996) 282.

[21] Marguerat, Gli Atti degli Apostoli, 1, 430.

[22] Marguerat, Gli Atti degli Apostoli, 1, 440.

[23] A. Dal Pozzolo, I ministeri ecclesiali alla prova della cura pastorale, «Studia patavina» (71/2024) 113.

[24] Cfr. P. Bignardi, Formare ai ministeri laicali nel contesto italiano. Prospettiva pedagogica, in S. Borghi (a cura), Il ministero del catechista e i ministeri laicali in una comunità sinodale. 2. Prospettive di sviluppo e percorsi formativi, Il pozzo di giacobbe, Trapani 2024, 20-22.

[25] Cfr. G. Routhier, Cristianesimo e Chiese del futuro, in Aa. Vv., Nuovo dizionario teologico interdisciplinare, EDb, Bologna 2020, 736.