Evangelizzazione e comunicazione: pensare e dire il cristianesimo oggi

di Lauro Paoletto

 
COS’È LA COMUNICAZIONE 
 
Sono numerose le definizioni che possiamo dare di comunicazione. Per quello che ci interessa possiamo definirla come il processo sociale fondamentale, fondativo della capacità dell’uomo di creare connessioni tra pensieri e sentimenti, tra persone e cose, connessioni che attivano processi sociali capaci di generare nuove opportunità, nuovi modi di organizzazione, nuove forme di vita.
Questa definizione chiarisce subito una cosa molto importante sulla quale torneremo: comunicare oggi non significa più semplicemente “mandare messaggi” (di qualsiasi tipo, con qualsiasi mezzo), ma è molto di più: va intesa come un atto sociale (che coinvolge più soggetti) e un atto reciproco di partecipazione, un atto mediato dall’uso di simboli significativi tra individui e gruppi diversi.
La comunicazione, come vedremo, implica dunque relazione. Questo è il cuore di tutta la nostra riflessione. La comunicazione o è relazionale o non è e in questo essere in relazione indica uno degli elementi identitari, costitutivi della persona umana.
Se pensiamo che oggi noi siamo qui a parlare di comunicazione ed evangelizzazione, intuiamo subito che c’è un nesso formidabile nel momento in cui poniamo al centro di questo processo sociale la relazione.
Alla luce di questa prima precisazione ci risulta chiaro cosa intendiamo quando diciamo che la comunicazione è la base della convivenza umana: è la base perché permette la relazione che è l’espressione identitaria somma dell’essere umano. Senza comunicazione, potremo dire, non c’è umanità. Detta in altro modo la comunicazione è la condizione prima e fondamentale perché ci sia l’umanità.
Il termine comunicazione deriva dalla parola latina communis: Comunicare significa “partecipare con altri”, “mettere in comune” con altri, informazioni, idee, emozioni… attraverso il linguaggio parlato o scritto, o visivo. Possiamo dire per estensione che comunicare vuol dire condividere e si rende possibile all’interno di un sistema condiviso con altre donne e uomini che possiedono la capacità di produrre e capire messaggi e quindi di interagire con altri soggetti.
Quando si partecipa al circuito della comunicazione si deve essere consapevoli che si partecipa con altri, si entra in relazione con altri (che non necessariamente la pensano come noi) e con altri si può entrare anche in sinergia. La comunicazione ti porta a collaborare, a creare sistemi che vanno oltre te stesso. La comunicazione, in questo senso, oggi ti scaraventa nella complessità del nostro mondo composto da molteplici soggettività.
Comunicare ha sempre offerto opportunità e presentato rischi. Il problema non sono però tanto i pericoli che il comunicare porta con sé, ma il suo senso, il supplemento di significato che esso offre.
Questo discorso vale, ovviamente anche con riferimento a tutti i media: la carta stampata, la tv, la radio, la rete. In modo differente tutti partecipano a questo processo sociale e con la loro azione creano connessioni, rapporti, relazioni.
Porre al centro del processo comunicativo la relazione come suo possibile effetto e come criterio per la sua valutazione ci porta a fare pulizia di false concezioni e a rigenerare il nostro modo di intendere la comunicazione. La comunicazione non è essenzialmente trasmissione o enunciazione. La comunicazione è prima di tutto incontro e scambio. Da questo punto di vista la comunicazione si è sempre più evoluta da una prospettiva monodirezionale (uno che comunica/scrive/parla e l’altro che ascolta/riceve) a una prospettiva partecipata e multidirezionale.
Siamo passati dai messaggi che viaggiavano con la diligenza ai messaggi sulla rete, sullo smartphone, sul tablet. Questo è molto chiaro anche se consideriamo i media. Il lettore non si accontenta più di leggere quello che trova sul giornale, vuole essere partecipe della discussione e interviene in vari modi. E’ una partecipazione che si manifesta in modo ancora più evidente con la radio, con la Tv e che ha il suo paradigma massimo con la rete. 
Si tratta di cambiamenti di grande rilevanza che hanno avuto e hanno un impatto di enorme significato nella vita personale e sociale. Noi siamo immersi in questi cambiamenti e possiamo dire che molte volte non ci rendiamo ben conto della loro portata e questo vale anche a livello di annuncio di fede. Questi mutamenti (per evidenziare solo un aspetto che ha però grandissime conseguenze) hanno modificato il nostro stesso modo di rapportarci con la dimensione spazio – temporale.
Possiamo allora cominciare ad annotare un primo elemento nel nostro esame del rapporto tra comunicazione ed evangelizzazione: interrogarci su questo rapporto significa innanzitutto essere consapevoli dei cambiamenti che coinvolgono la comunicazione e delle potenzialità che essi esprimono, prima ancora dei rischi che portano con sé.
Nell’universo comunicativo, un ruolo sempre più rilevante è giocato dai media che certo non risolvono tutta la comunicazione, ma certo la condizionano e la orientano. Il Cardinal Martini ci ricorda a tale proposito che “mediante i media è possibile una vera comunicazione umanizzante e addirittura salvifica”. E sottolinea che i media sono dono di Dio. A proposito della evangelizzazione sottolinea che “ogni mezzo di comunicazione può essere scelto e utilizzato da Dio come sua via per giungere al cuore dell’uomo. Una visione pessimistica che in partenza giudichi negativamente gli strumenti della comunicazione, in particolare quelli di massa, si oppone a questa visione di fede, che motiva invece una speranza di fondo. I mass media posso diventare il lembo della veste di Cristo.
Ora i media, ripeto, non sono tutta la comunicazione, né la esauriscono tutta in sé stessi, ma in una società che è definita dell’informazione vanno considerati nella dinamica complessiva a partire innanzitutto da uno sguardo di fiducia e speranza. Questo ci permette di cogliere meglio i cambiamenti in atto e i semi di bene che ci sono. Per molti versi i media rappresentano uno dei segni dei tempi di questo XXI secolo. In questo orizzonte sicuramente la comunicazione digitale costituisce la novità più grande che maggiormente sta incidendo sulle nostre relazioni quotidiane. 
Va evidenziato però che la comunicazione digitale non è l’unica esistente, né (lo sostengono oramai in tanti) è destinata ad assorbire gli altri tipi di comunicazione. Quello che è certo però è che essa ha già modificato tutta la restante comunicazione ed è destinata a orientarla anche in futuro. Per questo non si può non considerarla come uno dei paradigmi comunicativi principali oggi e per il futuro e per tale ragione anche noi oggi la teniamo come uno dei nostri riferimenti, consapevoli però che c’è anche dell’altro e su questo magari potremo tornarci nella seconda parte in particolare con il dibattito.
Come l’introduzione della stampa con Gutemberg nella metà del XV secolo rappresentò un passaggio fondamentale per sviluppare una comunicazione capace di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, così l’avvento della rete e dei cosiddetti new media costituisce un’invenzione che modifica la dinamica stessa della comunicazione, e inserisce degli elementi evolutivi. 
Va rilevato che nell’ultimo secolo abbiamo assistito a un moltiplicarsi dei media che hanno portato a enormi novità a partire da una sorta di rivincita del singolo individuo che non è più solo destinatario passivo di una comunicazione a senso unico, ma via via sempre più protagonista di scelte personalizzate.
L’introduzione della radio è dell’inizio del ‘900, la Tv compare a metà degli anni ’20 e in Italia la Rai all’inizio del 1954. Si diffondo i vari modelli di registratori e poi di videoregistratori (siamo negli anni ’70) con cui si moltiplicano le opportunità di scelte libere, di utilizzo personalizzato dei media. Si pensi al riguardo cos’ha significato il videoregistratore, con la possibilità di selezionare e conservare programmi liberamente scelti.
Negli anni ’60 in America si è cominciato concretamente a lavorare su dei sistemi di rete, anche se solo negli anni ’90 quello che conosciamo come Internet è diventato di dominio pubblico. 
Da lì in poi è tutto un rincorrersi di invenzioni e innovazioni fino all’attuale era digitale, con strumenti diversi sempre più integrati tra loro e capaci di dare all’utente finale un potere di scelta sempre maggiore.
Questa nuova stagione ci costringe in particolare a mettere in discussione il modello unidirezionale e statico che ha di fatto caratterizzato per secoli la comunicazione e a ripensarla in chiave d’interazione, condivisione e partecipazione, più che solo di trasmissione.
Comunicare è prima di tutto ridurre le distanze, sciogliere un po’ alla volta ciò che ci divide, allargare lo spazio comune, condividere informazioni con altri, donare qualcosa di sé agli altri, trasformare la frammentazione in unità.
Il primo messaggio di ogni comunicazione è o dovrebbe essere ‘sono con te’. La comunicazione vera mette al centro l’altro. Evidentemente non sempre è così e ogni giorno assistiamo a esempi (soprattutto nell’ambito della comunicazione sociale) che negano questo assunto, che vengono spacciati come comunicazione, ma che in realtà non lo sono perché non creano relazioni. Quando si considera la comunicazione occorre dunque sempre svelare una sorta di ambiguità che può falsarla.
La domanda fondamentale è: in questa mia comunicazione metto al centro l’altro o me stesso?
Di particolare interesse in tale prospettiva è il modello di comunicazione della rete. Esso è per eccellenza multidirezionale, orizzontale, basato sulla condivisione e sulla costruzione partecipata e aperta della conoscenza.
In rete ‘essere’ ? per definizione ‘essere-con’: questa ? la regola numero uno, quella che ha decretato il passaggio dal cosiddetto web 1.0 al web 2.0, quello social. la relazione è il primo messaggio dei social network, e l’individualismo non è (o non dovrebbe essere) più il paradigma di riferimento dei cosiddetti nativi digitali, per i quali l’essere umano ? essere relazionale: senza il ‘tu’ non c’è nemmeno l’io.
In questo senso la rete esprime il bisogno antropologico fondamentale della condivisione: non si è felici da soli, la presenza piena è la com-presenza, materiale o digitale che sia.
Certo poi possiamo discutere sulle qualità di queste relazioni, sui loro contenuti, sulla loro solidità o liquidità, ma è quello che si dovrebbe anche dire delle relazioni da bar o da stadio di qualche decennio fa. Le possibilità o i rischi di fragilità nelle relazioni ci sono – con caratteristiche diverse – al tempo dei social network come c’erano ai tempi del Bar Sport.
Un elemento di grande rilevanza che occorre evidenziare è che oggi il sapere, ci insegnano i nuovi media, è sempre più co-costruito, processuale, collaborativo. Non è un deposito in mano a pochi, che lo distribuiscono, ma un patrimonio disseminato e aggiornabile attraverso una partecipazione condivisa.
E’ questa la modalità di apprendimento e formazione che soprattutto i giovani oggi conoscono: non un processo monodirezionale, fatto di trasmissione (di qualcosa di già dato e compiuto) e ricezione (passiva), ma un circuito di scambio e partecipazione il cui risultato, mai definitivo, è più della somma della parti che lo hanno costituito, e non è già totalmente presente da qualche parte prima che questo processo abbia inizio. E’ una modalità “generativa” di apprendimento, che presenta dei rischi, ma dalla quale non si può oggi prescindere. E’ quella che il filosofo francese Pierre Lévy chiama “l’intelligenza collettiva”. 
Questo modello ha numerosi aspetti interessanti: consente, per esempio, di ripensare la relazione intergenerazionale, come ambito di coeducazione nella reciprocità, anziché di socializzazione a un sapere attraverso la sua trasmissione: i giovani possiedono infatti la competenza sui linguaggi; gli adulti possono fornire criteri di orientamento nella complessità sotto forma di esperienze, testimonianze, narrazioni. Un altro aspetto interessante è che saltano i riferimenti gerarchici, la comunicazione conta per quello che dice, per un’autorevolezza che essa manifesta, non primariamente per i ruoli di chi la esprime.
Uno dei risultati irreversibili di questi cambiamenti è che i media non sono solo più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato. Noi stiamo in questo mondo di suoni, di immagini, di colori, di impulsi e di vibrazioni come un primitivo era immerso nella foresta, come un pesce nell’acqua. E’ il nostro ambiente, i media sono diventati un nuovo modo di essere vivi.
Il panorama comunicativo è diventato a poco a poco per molti un “ambiente di vita”, una rete dove le persone comunicano, dilatano i confini delle proprie conoscenze e delle proprie relazioni.
La possibilità di comunicare si è dilatata così a dismisura superando e infrangendo quelli che erano considerati limiti spazio – temporali e questo è indubbiamente affascinante, ma moltiplica anche gli interrogativi, gli spazi da completare … Diciamo che le maggiori possibilità portano anche delle difficoltà aggiuntive che non vanno sottovalutate.

Le condizioni della comunicazione
 
Ma perché il ‘miracolo della comunicazione’, come lo chiama il filosofo Paul Ricoeur, possa accadere sono necessarie anche altre condizioni. Una di queste è il silenzio. Solo quando la parola scaturisce dal silenzio questa può essere vera e toccare il cuore: “Quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora (…); quando, invece, si integrano reciprocamente, la comunicazione acquista valore e significato”.
Il silenzio è “uno spazio di ascolto reciproco” in cui “diventa possibile una relazione umana più piena”, come ha scritto Benedetto XVI. In un contesto sovraccarico di sollecitazioni, poi, “il silenzio è prezioso per favorire il necessario discernimento tra i tanti stimoli e le tante risposte che riceviamo, proprio per riconoscere e focalizzare le domande veramente importanti”.
Il silenzio è il prerequisito per una vera comunicazione soprattutto in un mondo in cui ê possibile vedere senza essere visti, stare sempre connessi senza essere realmente in relazione, scambiarsi messaggi senza ascoltare veramente. Dove ê sempre più difficile tollerare i tempi vuoti, le attese, i momenti di inattività; dove è così comune ciò che già Bauman intravvedeva: il non saper stare né veramente da soli né veramente con altri.
E tutto questo è, come sappiamo, assolutamente decisivo in rapporto all’evangelizzazione.
Può sembrare paradossale che una delle condizioni per una comunicazione autentica sia il silenzio. Oggi questo non solo è vero ma è sempre più necessario: di fronte ai rischi di saturazione da eccesso di comunicazione, occorre riprendere le giuste distanze. I rischi principali sono, infatti, la superficialità, il disorientamento, il navigare a caso dentro un oceano comunicativo dove, se non si sta attenti è facile smarrire la direzione. In questo senso non si può essere perennemente connessi, sempre con il telefono a portata, come non si può rimanere tutta la giornata davanti al televisore o al pc. Il silenzio chiede di essere scelto e difeso. Ma il silenzio non basta, nell’oceano della comunicazione bisogna sapersi muovere. Ecco allora la seconda condizione: attrezzarsi di mappe, bussole, per non smarrire l’orientamento, o farsi ammagliare da sirene che infestano l’oceano comunicativo. L’esigenza di avere una direzione nella comunicazione porta da un lato a riconoscere il tantissimo che esiste a livello comunicativo come opportunità, ma al contempo la necessità costante di riandare all’essenziale, evitando possibili semplificazioni. Questo apre interrogativi sul versante educativo.
Vorrei essere chiaro: sapersi orientare non significa che dobbiamo tutti diventare esperti in comunicazione sociale o webmaster, tutti connessi, esperti di social network, ma avere alcuni rudimenti base su cos’è oggi la comunicazione questo credo sia necessario, tanto più se abbiamo delle responsabilità educative.
Quindi non è obbligatorio per una comunicazione significativa essere per forza sui social network, ma nel momento in cui ci vado, devo sapere scegliere a quale iscrivermi, altrimenti mi troverò in breve iscritto a più social network senza saperne la ragione. Riconoscere la forza e l’importanza della rete significa non fare un atto di fede cieco pensando che questa possa sostituire tutti gli altri strumenti di comunicazione. L’esperienza sta dimostrando che non è vero che la rete soppianterà gli altri media, ma piuttosto li integrerà. Questo sapersi orientare vale peraltro anche per la carta stampata o la Tv: non posso leggere 5 quotidiani al giorno e 5 settimanali alla settimana,  o seguire più trasmissioni di informazione, ma almeno riuscire ad avere alcuni elementi base per una lettura critica di quanto mi viene proposto questo posso darmelo come obiettivo.
Condizioni per la comunicazione autentica sono dunque il silenzio, la tensione all’essenziale, attrezzarsi per orientarsi nell’oceano della comunicazione.
Queste condizioni rappresentano i prerequisiti di una comunicazione autentica nell’era digitale che si sostanzi in ascolto, capacità di dialogo, riconoscimento dell’altro. Solo così la riduzione del fattore spazio temporale ci aiuta a sviluppare una comunicazione intesa come relazione e incontro vero.
La capacità di ascolto comporta che mi interessa anche quello che l’altro ha da dire e non solo quello che io devo esprimere: è il vivere la comunicazione in modo multidirezionale e non sono unidirezionale.
Se riprendiamo queste ultime indicazioni in particolare il prendere una direzione e il riandare all’essenziale, sentiamo come l’evangelizzazione possa davvero dare alla comunicazione un’anima, un centro gravitazionale fondamentale, a patto però che sia fatta correttamente, rispettando i criteri e i codici che la comunicazione nell’epoca digitale ci chiede.
Come comunicare dunque è una domanda centrale che dovremmo farci, se siamo consapevoli che questo condiziona la qualità della nostra vita personale e di relazione. Non è, infatti, detto che la moltiplicazione dei canali sia di per sé garanzia di maggiore comunicazione.
 
Comunicare narrando
 
Da questo punto di vista Gesù dà delle indicazioni di una grandissima attualità, laddove, per esempio, ci insegna a comunicare narrando. Nella società dell’informazione, invece, si rischia di diventare grandi consumatori di notizie ma incapaci di raccontare. E il racconto, la narrazione, è uno strumento comunicativo ed educativo preziosissimo. Intanto è una ‘palestra etica’ (come scriveva Ricoeur), che ci costringe a discernere tra cosa è importante e cosa no, a mettere in ordine gli avvenimenti secondo un filo di collegamento capace di interpretarli, a prendere posizione su cosa è bene e cosa è male. E poi, come sosteneva Bachtin, la narrazione è sempre polifonica, perché intreccia le voci e le vicende di tanti, e anche ‘policronica’, perché abbraccia presente passato e futuro, biografie personali e storia collettiva
Spesso ? proprio dall’altro che speriamo di sentirci raccontare chi siamo. Come nel Vangelo di Gesù, che conosce la verità intima di ciascuno al di là delle ‘etichette’ sociali che uno sguardo esterno e legato ai pregiudizi appiccica alle persone (l’adultera, il pubblicano, la samaritana…). Lo sguardo dell’amore ci restituisce invece la nostra identità più piena e vera, e uno sguardo nuovo sul mondo
Oggi si parla tanto di ‘convergenza’, con un significato prettamente tecnologico. Ma c’è anche una convergenza tra rete e fede, che rende il mondo di oggi propizio all’annuncio. La rete oggi non ? solo un luogo di relazione e di costruzione dell’identità per i giovani. È un’estensione del mondo, che ci rende più vicini e che noi dobbiamo riuscire a narrare.
 
COME COMUNICA GESU’
Riflessioni sul brano di Lc 24,13 ss  – I discepoli di Emmaus

13Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, 14e conversavano di tutto quello che era accaduto. 15Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?».
  Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. 21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
25Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno gia volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro.30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. 32Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». 33E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro,34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». 35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
 
È la storia di un incontro che cambia la vita, un percorso dalla disillusione alla speranza. Da questo incontro possiamo trarre delle indicazioni preziose sul come comunicare,  un come che ci interpella sia a livello personale, sociale ed ecclesiale.
La prima considerazione è che Gesù comunica PERSONALMENTE. Lo fa IN MODO DISCRETO, rispettando fino in fondo la libertà dell’uomo, di credere e di non credere, di accoglierlo o di rifiutarlo. 
Egli appare a questi due discepoli, che, prostrati, sono sulla strada del ritorno. Erano saliti a Gerusalemme con Gesù e anche loro, come altri, avevano investito tutto sulle sue parole. Ma per i discepoli di Emmaus tutto è finito, non c’è più niente da dire. O meglio c’è ancora molto da dire ma nulla da sperare. “Conversavano e discutevano”. Sono delusi. Stanno parlando della notizia della settimana, la notizia di quel grande profeta che dopo tre anni di predicazione e di miracoli arriva a Gerusalemme, non per liberare Israele come si aspettavano, ma per morire come l’ultimo dei malfattori. I due discepoli hanno sentito che tra gli amici di Gesù, girano già voci sulla sua resurrezione. Ma loro non ci credono. Ecco intanto che Gesù si è avvicinato ma loro non lo riconoscono.
E’ una situazione quasi paradossale. Gesù, quasi con ironia, si informa su se stesso, sta al gioco, come se non sapesse nulla. Dà la possibilità ai discepoli di esprimere il loro disappunto. Non giudica, ma cammina con loro, si mette nei loro panni. Dio si avvicina all’umanità così com’è. Avrebbe potuto dire subito chi era. Invece no. Per scaldare il cuore e scaldarsi a volte serve gradualità.
Nel dialogo tra Gesù e i discepoli c’è poi un’espressione chiave. È quel “noi speravamo”. Ognuno ci si può mettere dentro. Qui si parla di speranza, ma di una speranza coniugata al passato. E’ una speranza che sa di disincanto, di un sogno bello ma finito. La speranza “al passato” è terribile, perché ti chiude il cuore. È un’esperienza comune.
La risposta a queste attese arriva solo quando i discepoli riconoscono Gesù. Quello spezzare il pane richiama l’eucaristia, la presenza di Dio nella storia. Il parlare di Gesù autorevole e significativo chiama allora, progressivamente a responsabilità chi ascolta.
Tutto cambia, quando Gesù entra “per rimanere con loro”. È un’esperienza così piena e grande che i discepoli si rimettono in cammino, tornano indietro. Non c’è paura, non c’è indugio: partono e fanno ripartire la speranza. La speranza che nasce nel momento in cui ci rendiamo conto e percepiamo che Gesù non è estraneo alla nostra persona.
Proviamo a sintetizzare gli elementi che più ci servono per la nostra riflessione. C’è innanzitutto una personalizzazione del rapporto. Prima del contenuto ci sono le persone, un ‘tu’ cui rivolgersi, rispetto al quale c’è un rispetto preventivo. Questo rispetto si traduce anche in una gradualità della comunicazione che tiene conto del cammino del suo interlocutore.
Un terzo elemento è la significatività e riguarda i contenuti della comunicazione. Gesù è comunicatore di cose decisive, escatologiche, proprie dell’ultima ora della storia e di vitale rilevanza per una persona.
In questo senso da quando Gesù è venuto tra di noi, comunicazione – per i suoi discepoli – significa comunicazione della verità. Per Gesù o passa la verità o non si dà vera comunicazione. La comunicazione con Gesù è servizio della verità e non come l’arte della persuasione (come era la retorica del mondo greco e oggi dei moderni imbonitori).
Non va poi dimenticato che la significatività della verità passa in ogni comunicazione dall’atteggiamento del comunicatore. Per Cristo è la cordialità. Incoraggiare, invitare a non temere, perdonare (si pensi all’adultera, al ladrone, al piccolo gregge). Il suo è sempre passare dal meno al più, mai al contrario. Il Padre, Dio, riabilita sempre.
Questo servizio alla verità produce degli effetti: una comunicazione-risposta che può essere di conversione (Allora il Signore voltatosi, guardò Pietro… E Pietro uscito, pianse amaramente, Luca 22, 61-62), o una comunicazione-risposta che si fa opposizione, con gli avversari (tennero consiglio per farlo morire, Marco 3).
Infine la comunicazione di Gesù implica il coinvolgimento. Comunicare per Gesù è un appello a entrare nel disegno di Dio. La sua comunicazione è libera e liberamente va accolta. Chi risponde positivamente non ha che una comunicazione da vivere: seguire Cristo. Il che mette in luce un secondo livello di coinvolgimento: la comunicazione tende a realizzarsi in comunione.
 
SEGUE