Nelle parole di don Stefano l’esperienza di chi ha vissuto la malattia e ne ha colto il valore

A chi vive la sofferenza serve vicinanza

 
Don Stefano Giacometti, 37 anni compiuti proprio questo venerdì 6 febbraio, attuale vicario parrocchiale a Noventa Vicentina, sa bene che cosa significhi essere malato, avendo condiviso questa condizione, anche in forma grave, per tanti giorni e con molte persone. «È stata un’esperienza che mi ha segnato da giovane, presentandosi all’orizzonte della mia vita quando avevo 19 anni – racconta don Stefano, recentemente insignito del titolo di Cappellano della Grotta di Lourdes per il suo servizio assiduo ai malati -. Si è trattato di un cammino lungo e difficile, caratterizzato da momenti di speranza e di fatica, sempre accompagnato da altre persone che vivevano la stessa condizione di dolore, avevano voglia di combattere e speravano profondamente nella vita. Vivere con gli altri questi momenti è stato fondamentale.

Spesso ho avvertito la vicinanza di persone che mi amavano. Quando, poi, chi ti accompagna ha la stessa fede, tutto diventa ancora più forte e ricco di attesa. Questo mi ha insegnato che la vita è sempre un dono straordinario che va vissuto totalmente, anche nelle difficoltà, giorno per giorno, godendo di ogni suo attimo. L’altro insegnamento è che la malattia vissuta con altri è una grande scuola di vita e di fede e non solo un momento di limite».

Quali sono le parole e le forme di vicinanza che più sono gradite ad un malato e quali le più fastidiose?
«Le nostre parole di fronte alla malattia e alla sofferenza tante volte spaventano e non sai mai cosa dire. Forse la cosa più bella è il silenzio e nello stesso tempo far sentire che ci sei. Spesso le tante parole che diciamo fanno solo sentire la persona un malato; ma di questo lui non ha bisogno perché sa già di esserlo.

Talvolta il nostro parlare è solo un informarci della condizione di colui che è malato, ma a chi vive la sofferenza serve molto di più: la vicinanza, il sentire che tu lo incontri per quello che è e non perché è malato. A me piace dire quando vado a trovare una persona: “Io vado a trovare il mio amico X che non sta bene”. Non trattiamoli solo da ammalati».

Nelle nostre parrocchie l’attenzione ai malati è sufficiente e sentita come un richiamo alla carità?
«Che sia sentita come richiamo forte alla carità penso non ci siano dubbi, sarebbe grave il contrario. Che sia sufficiente rispondo sinceramente di no, anche perché farsi prossimo a chi soffre non può avere limiti: quello che sicuramente è insufficiente è che manca il sentirlo come una responsabilità dell’intera comunità. Educarsi a farci vicino, prenderci carico insieme come parrocchia di chi vive la sofferenza e non lasciare questo impegno solo a casi sporadici o alla buona volontà dei sacerdoti o di persone volenterose, deve essere un cammino fondamentale per una comunità cristiana. È una risposta primaria all’annuncio del Vangelo».

La malattia è spesso vissuta come una condanna. Come superare questo sentimento che rischia di appesantire ulteriormente la sofferenza?
«Quello che appesantisce la malattia e la fa vivere come una condanna è la solitudine. Se è vero che noi siamo fatti per la relazione, che la nostra vita ha senso solo se sappiamo amare ed essere amati, ogni ammalato deve avere questa possibilità e continuare a vivere la sua situazione di malattia, sentendo
di essere ancora una persona amata e che può donare ancora tanto agli altri. La malattia è vissuta come condanna perché molte volte ti isola da tutti e ti allontana dalla vita di prima, da com’eri, da come gli altri ti consideravano. La condanna peggiore è vivere tutto questo da soli, pensando che non sei più importante per nessuno e che la tua vita non ha più senso».
 
 
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