Qoelet: La violenza dei Pacifici La sintesi dell’intervento di padre Guido Bertagna alla Scuola del Lunedì.

 

  padre Guido Bertagna gesuita della Comunità di Padova Vicenza, Centro “Mons. Arnoldo Onisto”, 18 marzo 2019   Padre Bertagna ha iniziato il suo intervento affermando che l’ascolto è il fondamento delle relazioni. Il Talmud, a tal riguardo, dice che Dio ha creato l’uomo co due orecchie ed una bocca, a sottolineare che, nelle dinamiche relazionali, l’ascolto chiede un’attenzione doppia rispetto al parlare. Venendo al libro di Qoèlet, il relatore ha evidenziato che il linguaggio, che lo costituisce, è abbastanza semplice, ristretto, ma profondo. Si tratta di un linguaggio sempre seguito dall’ascolto, facendo così emergere che la parola necessita di essere deposita per portare frutto. Padre Bertagna è, quindi, entrato nel tema affidatogli, richiamando un dato preciso: gli oppressori sono forti della violenza, mentre gli oppressi hanno nulla. Ne consegue, secondo Qoèlet, che l’oppressione non trova dei consolatori, lascia l’uomo disarmato, indifeso. Ad una lettura più attenta, però, emerge che Dio non è indifferente al dramma degli oppressi. Citando il pensiero di Armido Rizzi, il relatore ha ricordato che il grido di Israele rivolto a Dio non sale invano, perché è ascoltato dal Signore e da tale ascolto nasce la preghiera. Il grido dell’oppresso, dell’uomo nella sofferenza, nel dolore, nella disperazione diventa preghiera in forza dell’ascolto accogliente. Una riflessione, questa, preziosa per meglio comprendere il significato ed il valore della preghiera. Continuando l’approfondimento del tema, il relatore si è soffermato sull’uso del termine hebel (tradotto in italiano con vanità e che rimanda al concetto di vuoto) in Qoèlet. Esso è presente ben 38 volte. Questa parola è importante per capire la riflessione proposta dal libro biblico in riferimento alla violenza dei pacifici. L’autore sacro riflette su un paradosso, e cioè che la morte è una forma di giustizia, perché colpisce tutti indistintamente, mentre i frutti dell’attività umana (l’eredità lasciata dai morti), conseguenza della fatica e dell’impegno personali, passano agli eredi, i quali ne godono senza aver minimamente faticato per ottenere l’eredità, per la quale troppo spesso si arriva a rovinare o sacrificare le relazioni interpersonali. Qoèlet analizza così un trinomio, vanità, fatica e guadagno, presente nel testo e criterio interpretativo del concetto di hebel (vanità).        Della vanità al libro biblico interessa poco la valenza morale, preoccupandosi, invece, del suo valore umano, esistenziale, ritenendo che la vanità possa essere ben riassunta nell’immagine del soffio, della condensa di vapore su un vetro, che hanno una breve durata. Padre Bertagna, a questo punto, ha citato il capitolo 5 del libro della Sapienza, dove si trovano altre immagini significative per comprendere il concetto (cfr. Sap 5, 8-13): la nave che solca il mare, l’uccello che fende l’aria durante il volo, la freccia scoccata. Tre esempi in grado di definire in modo chiaro cos’è la vanità, il vuoto, tanto caro a Qoèlet. Tutto questo cosa c’entra con la giustizia? Per rispondere alla domanda il relatore ha fatto riferimento all’episodio biblico di Caino ed Abele (Gen 4). Il primo fratello, di cui parla la Bibbia, è Abele (nome che deriva da hebel), il quale viene ucciso dal fratello Caino, invidioso del fatto che Dio aveva gradito Abele e la sua offerta e non lui e la sua. In tale contesto, quale giustizia è possibile, considerato che siamo di fronte ad un omicidio? Padre Bertagna, con linguaggio intenso e convincente, ha letto il fatto, mettendo in luce che la fraternità non è data dal sangue, ma va costruita nella relazione, che nasce fragile e necessita di un lento, costante e convinto cammino di crescita. Una verità che coinvolge Dio stesso, il quale, stando ad una approfondita lettura dei primi 11 capitoli della Genesi fatta da antichi pensatori ebrei, ha collezionato una serie di fallimenti: il rapporto Dio – uomo e uomo – donna (cap. 3) e il rapporto tra gli uomini (cap. 11). Da tutto questo deriva che la giustizia, per la Bibbia, non è osservanza della norma, ma è strutturalmente un fatto relazionale. Ciò comporta che essa è in balia della fragilità umana ed ecco, allora, il rimando al concetto di hebel (vanità, vuoto). Si può affermare, allora, che con Qoèlet e con Giobbe la cosiddetta giustizia retributiva arriva al capolinea: non è detto che facendo il bene, tutto andrà bene oppure il contrario. Emerge così la fragilità della giustizia e della fraternità umane, alle quali la giustizia di Dio risponde secondo quanto narrato in Gen 4. A Caino, uccisore del fratello, Dio offre l’aiuto di dare un nome alla sua tristezza, alla sua sofferenza. La reazione di Caino non asseconda l’offerta divina, ma Dio continua il dialogo con lui, richiamandolo alle sue gravi responsabilità di avere ucciso il fratello e anche la vita potenzialmente presente in lui (cfr. la traduzione del termine sangue non al singolare, ma al plurale). Un prezioso chiarimento è contenuto nel sal 50 (“Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto”), a sottolineare come Dio, nella logica della relazione, ha a cuore Abele, ma anche Caino, del quale si fa garante, e ogni uomo. Di Dio, allora, è possibile  e corretto dire che non è equidistante, come normalmente si intende la figura del giudice, bensì equi-vicino, equi-prossimo, cioè vicino ad Abele e a Caino, al quale è così offerta l’opportunità di scoprire il volto di Dio nel fratello. Tale lettura della giustizia, da parte di Qoèlet, si fonda nella consapevolezza della fragilità umana; una lettura che manca, ovviamente, di quell’evento fondamentale che è l’incarnazione del Figlio di Dio, morto e risorto.   Massimo PozzerScarica l’approfondimento allegato alla sintesi 
 

 Ascolta l’interventodi p. Giulio Bertagna