Qual è il confine tra il peccato veniale e quello mortale?

Seconda catechesi dell'Abate di Bassano sulla Confessione

 

Se entro in un negozio e pago senza chiedere lo scontrino, rubo qualcosa alla società. È una piccola ingiustizia, e non c’è proporzione con le enormi ruberie della corruzione dilagante: è un peccato veniale! Ma se ogni volta che posso non chiedo lo scontrino o cerco tutti i modi per evadere ai doveri di giustizia, quel gesto è ancora un peccato veniale? Capita che in famiglia si litighi e ci si tenga il muso per un po’, ma poi si fa pace: è un peccato veniale! Ma se penso solo a me stesso, e faccio mancare agli altri l’affetto, litigare è ancora un peccato veniale?È dunque legittimo chiedersi: qual è il confine tra il peccato veniale e quello mortale? A noi farebbe comodo una regola chiara e precisa, in base alla quale misurare i nostri atti in modo sicuro, e fare la lista per il confessore. Ma la risposta non è così ovvia, anzitutto perché il peccato veniale e quello mortale sono spesso fatti della stessa materia. Una volta si imparava a catechismo che per un peccato mortale ci vogliono “materia grave, piena avvertenza e deliberata volontà”. Quindi la diversa gravità (o pesantezza) delle singole scelte, è uno dei criteri, ma non l’unico: se io pongo sulla bilancia un grosso peso, o se metto una quantità di piccoli pesi, l’esito è lo stesso! Un altro criterio di differenza sono la diversa consapevolezza e volontarietà che noi mettiamo nelle azioni, perchè ci sono sempre di mezzo i limiti oggettivi della nostra condizione di figli di Adamo peccatore, segnata dalla fragilità e della debolezza di fronte al male: il temperamento, i momenti di stanchezza o di nervosismo, il trascinamento dell’abitudine ecc.. Ma anche questo è un confine impossibile da stabilire in modo uguale per tutti! Per andare avanti nella vita ci vogliono invece un orizzonte a cui guardare, e, per chi crede, è l’amore di Dio; e una bussola da usare, ed è la sua Parola. E allora scopriamo che la 1° lettera di Giovanni (3,14-18) dice: “Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. (…) Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità”. Il confine tra la morte e la vita si fa dunque visibile nell’amore verso i fratelli, come fioritura dell’amore di Dio che ci è stato donato: mortale è non amare! Il peccato non è una violazione della legge, per la quale il codice decide la colpevolezza in base alla diversa gravità degli atti. Esso è sempre una porta chiusa in faccia all’amore; e quando possiamo dire di avere amato Dio con tutto il cuore, e il prossimo come noi stessi (Marco 12,28-31) come chiede Gesù? Non basta usare il bilancino, per distinguere il peso di quello che è veniale e di quello che è mortale! La confessione è un momento di grazia nel cammino continuo della penitenza, nel quale chiediamo misericordia per il peccato che è in noi, con la volontà di convertirci e di camminare sulla via dell’amore. E questo non è mai abbastanza, perché l’amore propone sempre un passo più in là.

mons. Renato Tomasi