Quando Bauman inseguiva i piccioni in Piazza dei Signori: intervista a mons. Tommasi

 
 «Stavamo attraversando insieme Piazza dei Signori, prima della conferenza. Ad un certo punto, vedendo un gruppetto di piccioni, Bauman si è chinato e ha iniziato ad inseguirli, divertendosi come un ragazzino». È un aneddoto “rivelatore” quello che racconta don Roberto Tommasi, preside della Facoltà teologica del Triveneto e presidente Festival Biblico. «Bauman era così: un uomo curiosissimo, capace di lasciarsi sorprendere dalle cose più semplici».

 Professor Tommasi, Zygmunt Bauman, scomparso una decina di giorni fa, nel 2012 partecipò al Festival biblico. Cosa ricorda di quell’incontro? «Ricordo la sala strapiena dove si è svolta la conferenza. Abbiamo cercato in tutti i modi di rendere presenti il maggior numero possibile di persone, installando maxischermi dove potevamo. Ma non è stato sufficiente e abbiamo raccolto decine di lamentele da chi non ha potuto seguire l’incontro. Personalmente, non ricordo al Festival Biblico un incontro così partecipato».  Come mai Bauman riscuoteva un tale interesse da parte del pubblico? «Credo perché ha saputo calare la riflessione sociologica e filosofica dentro le situazioni che le persone vivono quotidianamente, e con un linguaggio non accademico».  Il 27 gennaio la “Giornata della memoria”. L’opera fondamentale di Bauman, Modernità e olocausto, tratta proprio dello sterminio degli ebrei. Dove sta l’importanza di questo lavoro? «Bauman rovescia la tesi tradizionale, che interpreta la Shoah come il male assoluto, da augurarsi che non si ripeta più. Per Bauman, invece, non si è trattato di una malvagità “eccedente”. L’Olocausto appartiene al potenziale sistemico di una società dove primeggiano tecnica e consumismo».  Chiariamo cosa si intende quando parliamo di “tecnica”. «La tecnica è un apparato, ovvero un insieme di mezzi e di strumenti di cui l’uomo si è dotato per “addomesticare” il mondo e realizzare le proprie esigenze. Nel mondo antico, erano solo mezzi, che l’uomo governava. Con la società moderna, questo apparato diventa così potente da avere vita autonoma e capacità di autoriprodursi. Fanno parte della “tecnica” strumenti tecnologici, ma anche gli apparati statali, le istituzioni socialie, le regole della finanza, eccetera».  Come si colloca Bauman nel dibattito sulla post-modernità? «Nella conferenza tenuta a Vicenza, Bauman ha parlato di “interregno”, un concetto contenuto anche in quello che è il suo libro più conosciuto: “Modernità liquida”. Da una società caratterizzata da unicità e grandi narrazioni, viviamo oggi in una società complessa, caratterizzata da molteplicità e fluidità dei riferimenti che provocano una condizione di incertezza. Non solo, la mentalità consumistica esaspera l’autoaffermazione del soggetto a scapito dei legami sociali. Questo concetto di interregno è presente nel pensiero di chi crede che la modernità sia finita ma che il “mondo nuovo” debba ancora venire. Di contro, c’è chi pensa che la modernità non sia finita, ma si sia solo trasformata. Bauman si colloca a metà strada tra queste due visioni».  Negli ultimi tempi, Bauman non ha nascosto la sua simpatia per Papa Francesco. Perché secondo lei? «C’è molta vicinanza tra i due, forse anche contaminazione reciproca, pur nelle differenze. Francesco, da arcivescovo di Buenos Aires, ha sperimentato una società incerta e frammentata, più di quanto la viviamo noi in Europa. Si è trovato “buttato” senza rete in una rete di relazioni complesse. Una realtà che, secondo Bauman, richiede una certa “spiritualità”, intesa come il bisogno di trovare dei significati per orientarsi nella vita».  Qual era la “soluzione” di Bauman per vivere in una società complessa e “liquida”? «Era molto prudente nel fornire ricette risolutive. Era però consapevole che vivere senza certezze è possibile individuando dei riferimenti “mobili” che emergano giorno per giorno, a seconda del contesto in cui viviamo. E che bisogna essere capaci di costruire legami aperti e informali dove nessuno è maestro ma tutti entrano in relazione con i diversi imparando l’uno dall’altro. In proposito, a Vicenza aveva parlato dell’esigenza di imparare uno stile di collaborazione aperta e informale». Andrea Frison