Mentre ogni giorno vedo centinaia di profughi sbarcare in Italia dall’Africa verso quella speranza di vita migliore che colmerà una mancanza materiale e di pace divenuta ormai insopportabile, penso alle centinaia di coppie italiane (e non) che ogni giorno “sbarcano” in terra d’Africa verso quella stessa speranza di vita migliore che colmerà una mancanza interiore altrettanto insopportabile, l’impossibilità di offrire amore e cure ad un figlio.
Mentre ogni giorno infuriano le polemiche sull’accoglienza ai profughi d’Africa (uomini, donne, bambini), penso al grande dono che ogni giorno l’Africa fa a noi coppie adottive e al nostro paese. Il dono dei suoi figli, il dono della sua accoglienza. Un dono dimenticato, soffocato da tante parole.
Un dono che qualcuno potrebbe cercare di sminuire dicendo che sulle adozioni girano soldi e ci lavorano persone, per cui siamo sempre noi ad aiutare l’Africa. Ma anche i profughi in arrivo aprono sistemi economici vantaggiosi (“L’economia dell’immigrazione”- www.fondazioneleonemoressa.org).
Nella realtà dei fatti, al di là di quello che ne viene poi, all’origine di tutto c’è una mancanza, che sia materiale o interiore. Al centro di tutto ci sono persone con i loro carichi e le loro sofferenze, c’è la necessità di incontrare qualcuno che ti aiuti a vedere la speranza.
Non dimenticherò mai la mia prima volta ad Addis Abeba, Etiopia. Un’immagine, in particolare, mi è rimasta impressa: mucchi e mucchi di macerie tra le quali uomini, donne e bambini seminudi (e lì faceva molto freddo perché la città si trova su un altopiano) cercano qualcosa, sovrastati da tanti, tantissimi palazzi in costruzione, anche moschee, per chi, per che cosa non si sa. Dinamiche strane, business sfuggenti. Ma tra le macerie il mio sguardo trovava sempre un’ancora di salvezza, erano i volti e i sorrisi di un popolo che cerca con tutte le sue forze di conservare una propria dignità, una propria identità.
Nei quartieri più poveri potevo vedere i volti di quelle donne che hanno dovuto rinunciare al figlio, o anche che non l’hanno voluto. Ma come si fa a giudicare in mezzo a certe situazioni evidenti. Degrado, povertà, nuovi estremismi religiosi che isolano la donna impura e il figlio che verrà.
Ma quel bambino è comunque nato, dando speranza, più o meno consapevole, a quelle donne e a noi mamme adottive, che ci aggiravamo tra macerie affettive.
Non potrò mai dimenticare, in mezzo a tanta povertà, la sorgente di vita che scaturisce ogni giorno attraverso un portone di ferro dal quale escono bambini, donne e uomini, finalmente figli, madri e padri, con tutta la ricchezza che questi termini, oggi così scontati, rappresentano. E’ il Villaggio (non a caso) Madonna della Vita, del Cae Centro Aiuti per l’Etiopia. Un ente nato da fede cristiana, che si occupa anche di adozioni internazionali, ma che, soprattutto, si impegna con vari progetti in Etiopia per migliorarne condizione sociale e di vita.
“Se non vedessi in ogni persona che c’è qui il volto di Cristo non ce la farei ad affrontare quello che affronto”, ho ancora nel cuore queste parole del fondatore del Cae Roberto Rabattoni, che spiegano bene il perché non sia certo chiesto alle coppie se sono credenti o meno, ma sia comunque richiesto loro di pregare e impegnarsi con spirito cristiano per promuovere il Cae, facendolo conoscere attraverso una messa nelle varie parrocchie, oppure attraverso la preghiera e la condivisione di progetti portati avanti dai vari gruppi locali.
Io e mio marito siamo atterrati in Etiopia dopo un’attesa relativamente breve. Nel giro di un anno e mezzo puoi abbracciare tuo figlio. Noi abbiamo avuto qualche ritardo per dei piccoli intoppi burocratici, ma quando poi conosci l’Africa capisci che, se succede solo qualche volta, è già un miracolo, ma, se hai fede, capisci soprattutto che il vero miracolo è dato dal fatto che la tua attesa è stata la giusta attesa per raggiungere, fra tanti, proprio quel bambino che Dio ha voluto essere tuo figlio. Oggi questo ci è così chiaro che ci dispiace anche un po’ per le volte che avremmo voluto forzare i tempi. Ricordo che Rabattoni rispondeva così alle nostre ansie “pregate ragazzi, pregate”. E aveva ragione lui.
Io e mio marito eravamo alla seconda adozione (la prima nazionale) e ci ha colpiti la cura con cui i bambini venivano seguiti con l’essenziale. Una cura diversa dalla nostra: fiduciosa, allegra, comunitaria. Tanto spazio al gioco, al canto e anche alle coccole dei bambini e ragazzini più grandi del Villaggio (le cui adozioni sono più difficili) nei confronti dei nostri figli più piccoli. Gesti sconvolgenti, cui non siamo più abituati.
Era il periodo delle piogge e faceva molto freddo (la città si estende infinita su un territorio che passa dai 2 326 m della periferia meridionale, nella zona dell’aeroporto, agli oltre 3000m della zona settentrionale), le tante tutine dei bimbi erano spesso umide perché non c’era modo di asciugarle, se non con le braci. Anche per le nostre camere, fornite dell’essenziale, abbiamo provveduto con delle stufette da casa. Eppure tutto questo appariva superabile e niente di fronte a quell’affetto e a quella grande famiglia che comunque si prendeva cura dei nostri figli, attraverso una sorprendente fiducia nella forza risolutrice e guaritrice dell’amore.
Abbiamo fatto due viaggi, il primo di una settimana per conoscere Alemseged Emanuele e il secondo, quando i documenti erano finalmente pronti, per portarlo a casa.
Due viaggi che, seppur faticosi nel vissuto fisico e psicologico, ci hanno consentito di conoscere il paese, le persone, i progetti legati al destino nostro e di nostro figlio.
Viaggi che è difficile spiegare, che ci hanno permesso di spogliarci di gran parte delle cose materiali cui siamo abituati per vivere appieno un’esperienza di puro amore e incontro.
Non ci possono essere aspettative, né materiali, né sui bambini, perché tutto avviene lì. Un turbinio di emozioni, di incontri, di volti, di storie.
Una ragazza che ti appoggia tra le braccia un bambino dello stesso colore della sua pelle, ti sorride e te lo affida, con una speranza che ha lo stesso colore della tua speranza. Un vera e propria nascita.
Karemi Furlani





