Corresponsabilità e/o sinodalità? – Pagina 2

Dei termini da "rigorizzare" per non essere fraintesi

 
4. ALCUNE PERPLESSITÀAccanto all’ampio consenso attorno al termine ‘corresponsabilità’, sono però da evidenziare anche alcune perplessità. Da un lato il ricorso odierno al termine, oltre che funzionale all’organizzazione ecclesiastica, farebbe tendenzialmente perdere di vista l’ampiezza semantica della responsabilità laicale, così come l’ha pensata il Vat II. Dall’altro lato il concetto di ‘corresponsabilità’, giacché assunto sotto la pressione di istanze ‘democraticiste’, rischierebbe di produrre un difettoso cortocircuito.a) Curvatura intraecclesialeL’impiego ecclesiastico corrente del termine ‘corresponsabilità’ è ampiamente orientato in senso intraecclesiale. Allude alla comune responsabilità nella conduzione e gestione ecclesiale; al fatto cioè che tutti devono sentirsi responsabili della comunità cristiana, intendendo con ciò che tutti devono sentirsi responsabili della sua ‘sopravvivenza’ e del suo ‘funzionamento’. Se badiamo bene all’uso specialmente recente del termine, quasi sempre il significato è di questo tipo.La cosa non è in sé sbagliata. È però insufficiente, giacché riduce di molto l’ampiezza della nozione di responsabilità e ‘corresponsabilità’, quale si trova ad esempio anche in un passo del Sinodo di Vicenza (1984-1987):Quando poi parliamo di «corresponsabilità», diciamo che in forza del Battesimo tutti, ciascuno per la sua parte, siamo responsabili della comunione e della missione della Chiesa. (Diocesi di Vicenza 1987, n. 45)‘Corresponsabilità’ ha qui a che fare certamente con la chiesa. Non già però con la sua organizzazione o il suo funzionamento [12], ma con la sua radice – la comunione – e il suo senso ultimo – la missione, cioè l’esser segno e strumento di tale comunione per tutti gli uomini.Nella proposizione attuale della corresponsabilità, a fare difetto sarebbe insomma l’orizzonte ampio e fondamentale della comune responsabilità di fronte al mondo, quella della evangelizzazione [13]. Il rischio di una sorta di clericalizzazione dei laici o di una configurazione intraecclesiale dei ministeri ecclesiali è distintamente avvertito e onestamente segnalato anche nello Strumento di lavoro della chiesa vicentina del 1997, titolato Laici e ministeri ecclesiali:La vocazione dei laici è primariamente riferita all’animazione evangelica delle realtà che costituiscono la vita ordinaria, personale e sociale, di tutti gli uomini e di tutte le donne (v.EM n.72; Sinodo nn. 117-120). Se quindi essi, in forza del battesimo e della cresima, assumono dei compiti nella chiesa, ciò deve avvenire nel rispetto della loro identità e vocazione, che assicurano un interscambio permanente fra la chiesa e il mondo (v.Sinodo, nn. 117-118).Esiste però il rischio che la stabilità e la partecipazione alla “cura pastorale”, proprie dei ministeri laicali, conducano a qualche forma di “clericalizzazione” dei laici, trasformandoli in un “clero di riserva” (a disposizione del “clero ufficiale”!), o in una nuova categoria di “specialisti del sacro”, estranei di fatto alla vita del mondo. È quindi necessario che il discernimento, la formazione e l’esercizio dei ministeri laicali avvengano in forme rispettose della vocazione e delle condizioni di vita dei laici. (Diocesi di Vicenza 1997, p. 19) L’ambito proprio dell’esercizio dei ministeri laicali è la partecipazione alla “cura pastorale” della comunità cristiana, e ciò potrebbe far nascere il rischio di una loro interpretazione o configurazione “intraecclesiale” che mortificherebbe non solo la vocazione dei laici, ma la stessa vocazione della chiesa, che non esiste per sé ma per il Regno e per il mondo. In realtà i ministeri non vanno pensati come strutture finalizzate al buon funzionamento dell’istituzione-chiesa, ma come occasioni perché (attraverso la stessa identità dei laici) la chiesa si senta provocata e impegnata dalle esigenze della missione nel mondo (v.EM n.73). (Diocesi di Vicenza 1997, p. 21)Anche Hervé Legrand richiama lucidamente l’attenzione sulla medesima problematica. Riportando una citazione del 1983, avanza persino il sospetto sconcertante che si sia dinanzi a un ‘tradimento’ del Vat II:Nella situazione culturale contemporanea, è indispensabile operare con le categorie «davanti e con Dio», «davanti e con gli uomini». Piuttosto che approfondire teoricamente questa articolazione, una citazione, di vent’anni fa, proveniente da Chicago, illustrerà tale articolazione:«Ai nostri giorni, il ruolo dei laici e la loro responsabilità sono meno apprezzati e meno sostenuti […] poiché la promozione dei laici sta per prendere la forma di una loro più grande partecipazione nell’attività che spettava tradizionalmente ai preti e alle suore. Ma durante lo stesso lasso di tempo, il servizio specifico che spettava ai laici, uomini e donne, che si svolgeva essenzialmente nell’ambito della professione e del lavoro è stato trascurato, come pure le sue responsabilità per trasformare il mondo della politica, dell’economia, delle istituzioni sociali. Il risultato è preoccupante. Si constata il declino delle organizzazioni dell’apostolato laico, il disdegno per i laici nelle loro occupazioni quotidiane e molto probabilmente la scomparsa di una generazione di militanti. Non vi sarebbe un’ironia della storia in rapporto al Vaticano II? Questo concilio, come era necessario, aveva aperto le finestre della chiesa sul mondo, ma ecco che sta per uscire una chiesa che rischia di rinchiudersi in se stessa». (Legrand 2003, p. 184)In maniera analoga si esprime il sociologo Luca Diotallevi, secondo il quale la traduzione operativa dell’appello alla ‘corresponsabilità’ in sollecitazione a divenire operatore pastorale ha effetti snaturanti tanto per i laici che per i presbiteri [14].Ebbene, ripulire la nozione di ‘corresponsabilità’ da una declinazione eccessivamente funzionale alla gestione ecclesiastica pare dunque necessario, specialmente allo scopo di riguadagnare la corretta referenza della comune responsabilità ecclesiale. In altre parole, è indispensabile recuperare la corretta prospettiva conciliare, in base alla quale, quando si parla di comune responsabilità ecclesiale, il riferimento è non tanto alla conduzione/gestione ecclesiale, bensì al comune impegno per la testimonianza della fede:La corresponsabilità non è quindi prima di tutto un aiuto ai pastori, ma un’espressione della vita cristiana, che trova luogo e forma principalmente nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro. È molto importante partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale anzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intraecclesiali, ma in forza piuttosto della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di ognuno. […] L’ambito dell’impegno laicale non è peculiarmente la cura pastorale della comunità cristiana, ma si esprime nella responsabilità testimoniale e nel servizio della comunità ecclesiale e sociale. (Asolan 2005, p. 432–433)Anche Evangelii Gaudium richiama l’attenzione su ciò, mettendo tra l’altro in guardia non solo dal clericalismo, ma anche da una partecipazione di laici alla vita della chiesa, che non si traduca in un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società [15]:I laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati. È cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede. Ma la presa di coscienza di questa responsabilità laicale che nasce dal Battesimo e dalla Confermazione non si manifesta nello stesso modo da tutte le parti. In alcuni casi perché non si sono formati per assumere responsabilità importanti, in altri casi per non aver trovato spazio nelle loro Chiese particolari per poter esprimersi ed agire, a causa di un eccessivo clericalismo che li mantiene al margine delle decisioni. Anche se si nota una maggiore partecipazione di molti ai ministeri laicali, questo impegno non si riflette nella penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico. Si limita molte volte a compiti intraecclesiali senza un reale impegno per l’applicazione del Vangelo alla trasformazione della società. La formazione dei laici e l’evangelizzazione delle categorie professionali e intellettuali rappresentano un’importante sfida pastorale. (Francesco 2013, § 102)Similmente è da guardarsi da una promozione di processi partecipativi, che abbiano per fine principale l’organizzazione ecclesiale:Nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e missionaria, dovrà stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti dal Codice di diritto canonico e di altre forme di dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fargli i complimenti. Ma l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti. (Francesco 2013, § 31)Più di recente, nella Lettera al card. Marc Ouellet, presidente della pontificia commissione per l’America Latina (19.03.2016), la medesima cosa è stata formulata con estrema puntualità come segue:Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. (Francesco 2016) 

[12] La cosa è detta in modo ancora più chiaro nel seguito: «La vocazione dei laici dunque, vissuta anche in forma organizzata, si realizza in modo primario e specifico nella scelta di incarnare e dare forma alla fede nelle realtà della vita quotidiana. In questo modo essi rendono presente la Chiesa e la potenza del Regno nelle realtà terrene e rendono presenti alle comunità cristiane la vita del mondo e i problemi della gente» (Diocesi di Vicenza 1987, § 118); «La coscienza della specifica vocazione laicale non è ancora sufficientemente radicata nelle comunità cristiane e anche in non pochi laici. Così accade spesso che i laici vengano prevalentemente impegnati dalla parrocchia in ruoli intraecclesiali e trascurino di conseguenza la loro funzione primaria nella vita del mondo» (Diocesi di Vicenza 1987, § 121).
[13] «È la Chiesa come tale che è missionaria; essa lo è per essenza e definizione; è la Chiesa, come popolo di Dio, che è incaricata, in cor-responsabilità, di evangelizzare il mondo. Il Concilio l’ha affermato dapprima nella costituzione Lumen gentium; durante l’intervallo delle sessioni, questa prospettiva è maturata, ulteriormente e il Concilio l’ha ripetuta, con una forza ed una chiarezza accresciute, nel decreto Ad gentes sulle Missioni» (Suenens 1968, p. 48).
[14] «Il problema non è assolutamente risolto, ma aggravato ulteriormente, se questa situazione viene affrontata proponendo a qualche individuo del popolo dei sacramenti di divenire operatore pastorale. Ciò distorce e atrofizza ulteriormente la sua coscienza laicale e dunque lo rende ancora meno adatto a portare il proprio contributo alla pastorale «in quanto laico» (AA n. 20). Semmai, per quella via, il clero ottiene una riduzione del proprio carico di lavoro – oggi comunque assai inferiore che nel passato –, ed istituisce una piccola “corte”» (Diotallevi 2014, p. 148).
[15] È ravvisabile qui l’eco di quanto già Paolo VI annotava: «I laici, che la loro vocazione specifica pone in mezzo al mondo e alla guida dei più svariati compiti temporali, devono esercitare con ciò stesso una forma singolare di evangelizzazione.Il loro compito primario e immediato non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale – che è il ruolo specifico dei Pastori – ma è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo. (EN 70)» (Paolo VI 1975, n. 1687).
   

 

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