OMELIA nella Celebrazione Eucaristica della ESALTAZIONE DELLA CROCE
con la FESTA DELLE FAMIGLIE
Cattedrale, 14 settembre 2025
Letture: Nm 21,4-9; Sal 77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17
Cari fratelli e sorelle, care famiglie,
ci raccogliamo oggi nella luce mite della fede, in questa nostra Cattedrale che custodisce un dono prezioso: un frammento della Croce di Cristo. Quel legno, ricevuto secoli fa dal vescovo il beato Bartolomeo da Breganze, non è solo una reliquia, ma una chiamata. Una chiamata a guardare in alto, come fece Israele nel deserto; a contemplare il Mistero; a lasciare che la Croce di Gesù illumini le nostre domande, le nostre ferite, i nostri desideri di vita piena.
Le dieci tele del Paramento Civran ci accompagnano nel silenzio e ci educano. Sono come pagine di una Bibbia dipinta: ci narrano la storia della Croce, che non è solo la storia della passione di Cristo, ma è anche la storia del cuore umano che cerca salvezza, che geme sotto il peso del peccato, che spera nella misericordia.
Vorrei fermarmi con voi, con semplicità, su tre parole che ci aiutano a entrare nel mistero che oggi celebriamo: guardare, credere, oltrepassare.
Guardare
Nel libro dei Numeri, che la liturgia oggi ci propone, il popolo d’Israele è ferito dai serpenti. È il deserto, è la stanchezza, è la protesta. Eppure Dio non si ritrae. Non annulla il male, ma apre una via. Dice a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo su un’asta. Chiunque lo guarderà, resterà in vita” (Nm 21,8).
Non basta vedere. Bisogna guardare, cioè sostare con lo sguardo, accettare di lasciarsi toccare, farsi interrogare. Così è anche la Croce di Cristo: non è un oggetto da esporre, ma una Parola da ascoltare con gli occhi del cuore. Guardare la Croce significa lasciarsi amare.
La Croce ci chiede di guardarci dentro. Di guardare i nostri deserti, le nostre stanchezze, le ferite che forse ci portiamo dentro come serpenti nascosti. Ma ci chiede anche di guardare più in là: verso Colui che ha scelto di farsi fragile per salvarci.
Credere
Gesù, nel Vangelo di Giovanni, fa memoria di quell’episodio e lo porta a compimento: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo” (Gv 3,14).
Poi aggiunge una parola che dobbiamo custodire come un tesoro: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui… abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Credere, nella Bibbia, non è aderire a un’idea. È fidarsi. È affidarsi. È lasciarsi portare. È riconoscere che la salvezza non viene da noi, ma da un amore che ci precede.
Nella Croce, Dio si fa vicino proprio lì dove sembrava più lontano: nella sofferenza, nell’ingiustizia, nella solitudine. E proprio lì, ci chiede di fidarci. Ci chiede di credere che la vita è più forte della morte, che la misericordia è più forte del peccato, che l’amore è più forte del giudizio.
Oltrepassare
Oggi, in questa festa che è anche la Festa diocesana delle famiglie, ci lasciamo provocare da un tema che interpella la nostra responsabilità: “Oltre i muri”.
Il carcere, con i suoi muri reali e simbolici, è parte della nostra città, del nostro corpo ecclesiale, della nostra umanità. Non possiamo ignorarlo. Non possiamo dimenticarci di chi vive dietro a quei muri, spesso segnato da colpe, ma sempre abitato da un’umanità in attesa.
La Croce ci chiede di oltrepassare:
- oltrepassare il muro del giudizio facile,
- oltrepassare il muro delle nostre chiusure,
- oltrepassare il muro della paura,
- oltrepassare il muro dell’indifferenza.
- oltrepassare il muro dell’impotenza.
Il muro dell’impotenza oggi è forse quello più difficile da abbattere. Ha ricordato papa Leone inviando un messaggio alla popolazione dell’isola di Lampedusa che da più di trent’anni accoglie i migranti nei viaggi della speranza: oggi viviamo “la globalizzazione della impotenza” perché la “storia è devastata dai prepotenti”, ma per noi credenti la “storia è salvata dagli umili”. Perciò alla globalizzazione dell’impotenza occorre opporre la cultura della riconciliazione, così le nostre parrocchie, a partire dalle famiglie, possono diventare sempre più vere e proprie case di pace.
È un invito forte che vale per tutti: per le famiglie, chiamate a costruire ponti nella quotidianità, tra generazioni, tra differenze, tra fragilità e speranze.
È un invito per la comunità cristiana, chiamata ad annunciare la misericordia, non come una teoria, ma come un’esperienza viva.
Chi ha guardato la Croce e ha creduto all’amore di Dio, non può più costruire muri, ma solo varcarli.
Carissimi, lasciamoci dunque accompagnare dalla Croce, quella vera, quella viva, quella significata nel frammento custodito in questo luogo santo.
Lasciamoci educare dallo sguardo di Gesù innalzato. Guardiamo, crediamo, oltrepassiamo.
C’è un passo dell’omelia di papa Francesco in quell’indimenticabile serata di preghiera in una Piazza San Pietro completamente vuota a causa della pandemia, che ancora fa vibrare il cuore: “Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore” (27 marzo 2020).
E in quelle braccia ci siamo anche noi. Con le nostre famiglie, con le nostre ferite, con i nostri sogni, con la nostra sete di giustizia, di perdono e di pace.
Sotto la Croce di Gesù – e questo lo ricordo con forza – c’è posto per tutti. Anche per chi è dietro un muro. Anche per chi ha perso la strada. Anche per chi sta imparando a vivere di nuovo.
Contemplando quella Croce comprendiamo che non è un peso da sopportare, ma una soglia da attraversare. E oltre quella soglia, c’è la luce della Pasqua.




