«La mia anima esulta nel Signore»: abitare la complessità del presente con animo grato Meditazione del vescovo Giuliano per presbiteri e diaconi all’inizio dell’Avvento Santuario di Monte Berico, 27 novembre 2025

«La mia anima esulta nel Signore»:

abitare la complessità del presente con animo grato

Meditazione del vescovo Giuliano per presbiteri e diaconi all’inizio dell’Avvento

Santuario di Monte Berico, 27 novembre 2025

Vorrei partire riconoscendo, semplicemente, senza difese spirituali, ciò che molti di voi portano nel cuore: una certa delusione, una stanchezza che non è solo fisica, una sottile insoddisfazione per la complessità del ministero oggi, una certa solitudine.

Non è più il ministero che avevamo immaginato quando siamo entrati in seminario. Le persone sono cambiate, le comunità sono più fragili e frammentate, le strutture da reggere sono impegnative, le attese spesso confuse o contraddittorie. Talvolta prevale la sensazione di dover “tamponare” problemi più che generare cammini di fede. E nel cuore può nascere una preghiera non detta: “Signore, è davvero questo il ministero che mi avevi preparato?”.

Dentro questo contesto, la Parola oggi ci conduce per mano con due scene evangeliche: i dieci lebbrosi guariti, di cui uno solo torna a ringraziare (Lc 17,11-19), e il Magnificat di Maria (Lc 1,39-55).

Sono due pagine che possono ridare respiro al nostro ministero, non togliendo la complessità, ma insegnandoci ad abitarla con un animo nuovo, un animo grato.

  

  1. Gesù sulla linea di confine: la nostra terra di ministero

Luca annota che Gesù, “mentre andava verso Gerusalemme, attraversava la Samaria e la Galilea” (Lc 17,11). Non è un dettaglio geografico: è una linea di confine, una terra di frontiera, dove non è chiaro chi sta “dentro” e chi “fuori”, dove si incrociano puro e impuro, vicino e straniero.

E forse è anche la definizione più onesta del nostro ministero oggi: viviamo su confini:

  • confini tra fede e indifferenza, tra praticanti stanchi e lontani inquieti;

  • confini tra linguaggi antichi e sensibilità nuove;

  • confini tra l’annuncio del Vangelo e l’urgenza di mille gesti organizzativi e amministrativi.

Pensando alla nostra realtà. Il sociologo Alessandro Castegnaro (Osservatorio socio-religioso del Triveneto, OSReT), nei suoi studi su giovani e fede (2017) ha parlato di una “nuova terra di mezzo tra le due rive del credere e del non credere”, dove si collocano molti battezzati di oggi: non più davvero “praticanti”, ma neppure atei, piuttosto in una zona intermedia, incerta, con desiderio di credere ma con molta fatica a vivere la fede in forma adulta.

In questo contesto segnalo quanto è emerso al primo punto, dal gruppo di sei vescovi incaricato di indicare all’Assemblea dei vescovi italiani una prima bozza di “linee prioritarie” per individuare alcune scelte da compiere nelle chiese che sono in Italia. Si tratta della questione della fede vissuta e della fede trasmessa nel contesto della formazione permanente dell’intero popolo di Dio.

«Diversi fenomeni constatati lungo il Cammino [sinodale] e molti auspici fatti dal Documento [di sintesi Lievito di pace e di speranza] concorrono a renderci accorti del fatto che le forme di trasmissione della fede sulle quali ancora normalmente contiamo non paiono più adatte – specie con i più giovani – , che ciò che ha a che fare con il fatto che la fede nel Dio rivelato compiutamente in Cristo e nel dono dello spirito non può più essere data per scontata neppure in chi frequenta anche normalmente gli ambienti ecclesiali e che, in ogni caso e soprattutto, per essere custodita e trasmessa ha bisogno più che mai oggi di essere costantemente alimentata. Molte questioni sollevate e molte richieste presenti soprattutto nella parte seconda del documento possono essere ricondotti a questa questione di fondo. Tutto il cammino svolto rappresenta peraltro la necessità di connettere in modo intrinseco la trasmissione della fede alla sete di senso laddove si manifesta» (R. Repole, Per una condivisione circa le priorità pastorali della Chiesa in Italia, non pubblicato, Assisi 17 novembre 2025, il corsivo è mio).

Noi ci troviamo nella terra di mezzo a proposito della fede e avvertiamo la nostra missione in un terreno che ci sembra “estraneo” alla fede cristologica.

Tornando al testo biblico possiamo dire che questo è il luogo dove Gesù decide di sostare sui “confini” o nella “terra di mezzo”.

Proprio lì, sulla linea di confine, spuntano i dieci lebbrosi. Sono figure di esclusione, di ferita, di marginalità. “Si fermarono a distanza e alzarono la voce” (v. 12-13). Non possono avvicinarsi, ma possono gridare. Il loro grido è semplice e povero: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!”.

Forse questa è l’immagine del nostro ministero in questo tempo: circondati da grida che non sempre sappiamo decifrare, voci spesso confuse, lontane, ma reali. È il grido delle famiglie ferite, dei giovani disorientati, dei poveri che non fanno rumore, dei malati che si sentono un peso, delle comunità che hanno perso il gusto di credere insieme.

Gesù non scappa da questa terra di confine. La abita. La attraversa. Vi cammina dentro.

Possiamo ravvisare una prima indicazione per noi, oggi: non siamo mandati a servire in “una terra” diversa da quella di Gesù. Il Signore è già lì, prima di noi, nelle fratture della storia, nei confini che vi stancano e vi confondono. Il ministero non è stare “al centro” di una situazione chiara e ordinata, ma condividere con lui la fatica del camminare “verso Gerusalemme” attraversando le Samarie della storia.

 

  1. Dieci guariti, uno salvato: la gratitudine che rialza

E mentre andavano, furono purificati” (v. 14). La guarigione avviene lungo la strada, nell’obbedienza alla parola di Gesù: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Non c’è un miracolo spettacolare, non c’è un gesto clamoroso: c’è una parola ascoltata e seguita, anche se il segno non è ancora visibile.

Quante volte anche noi viviamo così: camminiamo nella fede senza vedere subito i frutti. Annunciamo, accompagniamo, celebriamo, e spesso non sappiamo che cosa quella parola sta operando nei cuori. La grazia agisce “mentre si va”, nel quotidiano obbedire al Vangelo e al ministero affidatoci.

Ma il centro del racconto non è la guarigione in sé. Il centro è quel “ritornare indietro” di uno solo, “un samaritano” (v. 15-16).

Tra dieci guariti, uno solo torna. È straniero, culturalmente e religiosamente “altro”. Non ha titoli, non ha appartenenze garantite. Eppure è lui che riconosce il dono, è lui che si lascia attraversare dalla gratitudine. Torna “lodando Dio a gran voce”, si getta ai piedi di Gesù, riconosce che quell’opera non è solo guarigione esteriore, ma inizio di una vita nuova.

Gesù gli dice: “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (v. 19). Quel “alzati” è verbo pasquale, verbo di risurrezione. Dieci sono stati guariti nel corpo, uno solo è salvato nel corpo e nello spirito. È la differenza tra il ricevere un beneficio e il riconoscere un dono; tra l’uscire da un problema e l’entrare in una relazione.

Forse questo è uno dei punti decisivi per noi oggi. Siamo testimoni di tanti “miracoli quotidiani” che non vediamo: piccoli cambiamenti di vita, semi di bene, germogli di Vangelo. Ma la nostra fatica, la nostra amarezza qualche volta, ci impediscono il passo del samaritano: tornare a Gesù per ringraziare.

La tristezza spirituale nasce spesso da una memoria selettiva: ricordiamo ciò che non va, ciò che è mancato, le incomprensioni, i rifiuti; e dimentichiamo i doni, le fedeltà silenziose, le luci che pure ci sono.

Il cuore si inaridisce quando smette di tornare, di fare memoria grata, di riconoscere che, nonostante tutto, “grandi cose ha fatto in noi l’Onnipotente”.

Ogni volta che ringraziamo, in realtà ci rialziamo.

Ogni “grazie” detto davanti al Signore è un piccolo atto pasquale, un risorgere interiore.

In che cosa consiste la fede in questo incontro tra il lebbroso e Gesù? Possiamo dire che la fede è quel mettersi in cammino verso Gesù per riconoscere davanti a Lui e con Lui il dono ricevuto. Quel lebbroso nel quale siamo invitati a immedesimarci ri-conosce Gesù. Cosa vuol dire ri-conoscere? Accorgersi e rendersi conto, da qualche segno o indizio, che una persona già incontrata si conosce per quello che è realmente, nella sua essenza o in una sua qualità. Il samaritano ri-conosce il Messia, scorge in Lui una vita totalmente recuperata alla gioia dell’esistenza.

  1. “L’anima mia magnifica il Signore”: Maria, maestra di sguardo

Con questo sfondo entriamo nel Magnificat.

È il canto di una giovane donna che vive anch’essa in un tempo se non di complessità certamente in un contesto non facile: un piccolo villaggio sperduto, un popolo occupato, promesse di Dio che sembrano lontane, conosciamo dove dovrà partorire…. Eppure, nel cuore di Maria nasce un canto che attraversa i secoli.

L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore” (Lc 1,46-47).

Il contesto in cui l’evangelista Luca ha collocato questa straordinaria espressione di esultanza di Maria potrebbe avere molteplici significati. Un primo motivo ad aver suggerito il viaggio alla cugina Elisabetta potrebbe essere il desiderio di aiutarla, ma questa ragione non emerge dal racconto. Un secondo potrebbe nascere dal desiderio di Maria di osservare il segno indicato dall’angelo (1,36); Zaccaria aveva chiesto un segno, Maria non lo ha chiesto, tuttavia le è stato dato e Maria accoglie questo invito al modo di una sorta di “conferma della fiducia accordata a Dio”. Commenta Maggioni:

«L’indicazione dell’angelo nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno parte della logica della rivelazione. Dio mostra la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga nel buio. Tuttavia va osservato che Luca nel suo breve racconto non esplicita neppure questo. Piuttosto il suo scopo è di raccontare una tappa ulteriore della manifestazione dell’evento messianico. Non un segno “prova”, ma un segno “rivelazione”. Nell’ottica lucana il viaggio di Maria è anzitutto in funzione della manifestazione di Gesù: non a servizio di Elisabetta, nemmeno a servizio della fede di Maria, ma a servizio di Gesù» (Il racconto di Luca, Assisi 20226, p. 37).

E quale sarebbe il contenuto della rivelazione messianica? Vi sono due letture interpretative del viaggio di Maria.

La prima coglie una sorta di analogia tra questo viaggio e il viaggio dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme al tempo del re Davide (cf 2Sam 6,2-11).

La seconda viene riferita alla struttura teologica del vangelo di Luca che scorge nel viaggio di Maria premonitore del futuro viaggio di Gesù verso Gerusalemme (le prime due nel paese di Giuda con la visitazione e la nascita di Gesù, le altre due nel tempio di Gerusalemme per la presentazione e il ritrovamento.

Notiamo: Maria non canta perché la sua vita è diventata semplice. Non ha tutte le risposte. Non sa come Giuseppe reagirà, non immagina il futuro del Figlio, non vede ancora nessun cambiamento politico o sociale. E tuttavia canta. Perché?

Perché ricevendo conferma che il Dio incontrato nella mediazione dell’arcangelo è degno di fiducia si rende conto dell’inaudito sguardo di Dio su di lei. Maria canta il Magnificat perché ha percepito un fatto decisivo: “Ha guardato l’umiltà della sua serva” (v. 48).

La fonte della gioia di Maria non è la riuscita della sua vita, ma lo sguardo di Dio su di lei. Dio l’ha guardata, l’ha visitata, ha preso l’iniziativa. E questo le basta per dire: “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata, grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.

Carissimi, forse la nostra stanchezza nasce anche da qui: abbiamo perso di vista lo sguardo di Dio su di noi; ci siamo misurati troppo sulle risposte che non arrivano, sui numeri che calano, sulle energie che diminuiscono, sulle incomprensioni che feriscono.

Il Magnificat ci invita a tornare alle origini della nostra vocazione: a quando, in forme diverse, ognuno di noi ha sentito che il Signore posava su di lui uno sguardo unico, personale, di benevolenza; a quando la chiamata al presbiterato o al diaconato è stata percepita come un “grande cosa ha fatto in me l’Onnipotente”, nella nostra condizione di fragilità e di povertà. Questo sguardo è il dispiegarsi della rivelazione di Cristo in noi.

Là, nella memoria grata del primo amore, lo Spirito Santo continua a parlarci. E ci dice: non sei definito dai tuoi successi o insuccessi pastorali; sei definito dallo sguardo di Dio su di te. Sei uno sguardo amato, non un ingranaggio che deve far funzionare una macchina.

 

  1. La storia in mano agli umili

Il Magnificat è anche un grande canto di rovesciamento: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (v. 52-53).

Maria legge la storia con occhi profetici: vede che Dio agisce in modo capovolto rispetto alle logiche del potere. Non sono i violenti, i prepotenti, gli efficienti a tenere realmente in mano la storia: è Dio che la conduce attraverso gli umili, gli affamati, chi non conta.

Qui c’è una parola preziosa per noi presbiteri e diaconi. Possiamo sentirci ai margini: poco ascoltati, culturalmente irrilevanti, numericamente in calo. Eppure il Vangelo ci dice: è proprio lì che Dio lavora. Il Signore ama servirsene di ciò che appare piccolo, periferico, fragile, per far passare il suo Regno.

Non siamo noi al centro. Ma siamo dentro la schiera degli “umili” attraverso cui Dio costruisce la storia. Siamo – o almeno siamo chiamati ad essere – quella presenza discreta, fedele, nascosta, che ogni giorno visita anziani, accoglie poveri, ascolta storie di fallimenti, accompagna ragazzi con le loro famiglie all’iniziazione cristiana, celebra Eucaristie feriali con pochi, confessa peccatori che non giudica nessuno.

La storia è nelle mani di questi piccoli movimenti di bene. La nostra consolazione non è vedere tutto; è sapere che tutto è visto da Lui, che nulla di ciò che viene vissuto per amore andrà perduto.

  1. Abitare la complessità con animo grato: alcune piste

Come allora abitare, oggi, la complessità del ministero con un animo grato libero da tristezze, lamentele e ripiegamenti? Vorrei suggerire alcune piste, che nascono proprio da queste due pagine evangeliche.

  1. a) Ritornare spesso per ringraziare

Come il samaritano, abbiamo bisogno di “tornare indietro”, di tornare da Gesù, non solo per chiedere, ma per ringraziare.

Può essere un esercizio quotidiano, semplice: alla sera, prima di dormire, chiederci non solo “che cosa non ha funzionato oggi?”, ma “dov’è passato oggi il Signore? Quale volto, quale parola, quale piccolo gesto è stato per me segno del suo amore?”.

La gratitudine non nega la fatica, ma la trasfigura. Ci fa passare da un rapporto funzionale con il ministero (“che risultati ho ottenuto?”) a un rapporto sponsale (“come il Signore oggi mi ha raggiunto e ha operato, anche attraverso la mia povertà?”).

  1. b) Custodire la memoria delle visite di Dio

Maria custodiva e meditava nel cuore gli eventi, li teneva insieme, non li disperdeva.

Anche noi possiamo chiedere la grazia di una memoria benedetta, non rancorosa.

Forse può essere davvero importante tenere viva la memoria della nostra storia vocazionale in atto (una storia che va verso il suo compimento): i volti che ci hanno generato alla fede, i momenti di luce degli inizi, le comunità che ci hanno accolto, le persone che ci hanno perdonato, fino al presente. Fare memoria grata non è nostalgia; è riconoscere che Dio ha scritto, e continua a scrivere, la nostra vita con tratti di misericordia anche passando attraverso momenti e situazioni dolorose che possono averci ferito.

  1. c) Riconoscerci parte di un popolo di umili

Non siamo soli. Non portiamo da soli la storia sulle spalle. Maria canta un “noi”: Israele, Abramo, i padri. Anche noi siamo dentro un “noi”: un presbiterio, una Chiesa diocesana cui ci sentiamo legati anche quando siamo in terra di missione o in percorsi di studio, un popolo di piccoli.

È importante riconoscere gli umili che ci circondano: gli anziani che continuano a pregare, le persone semplici che offrono sofferenze, i volontari che non chiedono riconoscimenti, le famiglie che nonostante tutto perseverano nell’amore, gli adolescenti e i giovani con le loro domande di senso e i loro desideri. Incontrarli, guardarli con stupore e gratitudine ci aiuta a ricordare che Dio è all’opera.

E dentro questo popolo di umili ci siamo noi: non come “manager del sacro”, ma come servi inutili, lieti di essere solo un tramite.

  1. d) Lasciarsi guardare di nuovo

Infine, forse tutto si gioca qui: lasciarsi guardare di nuovo dal Signore. Permettere che il suo sguardo di misericordia tocchi proprio le nostre zone di delusione, di insoddisfazione, di fallimento.

Potremmo portare davanti a Lui, in adorazione, senza troppe parole, quella parrocchia faticosa, quella relazione difficile, quel senso di “non farcela” che abita il cuore. E attendere, come Maria, che il suo sguardo rimetta in moto il canto del Magnificat dentro di noi.

In conclusione

Il grande padre della Chiesa Ambrogio di Milano ci ha lasciato uno splendido commento del Magnificat. In esso rivolge un invito che può essere utile a noi:

«Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio… L’anima di Maria magnifica il Signore, e il suo spirito esulta in Dio, perché, consacrata con l’anima e con lo spirito al Padre e al Figlio, essa adora con devoto affetto un solo Dio, dal quale tutto proviene, e un solo Signore, in virtù del quale esistono tutte le cose” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27: SAEMO, XI, Milano-Roma 1978, p. 169).

Ha commentato papa Benedetto XVI:

«Così il santo Dottore, interpretando le parole della Madonna stessa, ci invita a far sì che nella nostra anima e nella nostra vita il Signore trovi una dimora. Non dobbiamo solo portarlo nel cuore, ma dobbiamo portarlo al mondo, cosicché anche noi possiamo generare Cristo per i nostri tempi. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a magnificarlo con lo spirito e l’anima di Maria e a portare di nuovo Cristo al nostro mondo» (Udienza generale, 15 febbraio 2026)

Facciamo nostre, personalmente, le parole di Maria: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore… Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome”.

Forse oggi non ci viene spontaneo dirlo.

Forse ci sembra che le “grandi cose” siano poche e i pesi molti.

Chiediamo allora allo Spirito Santo di ridonarci questo sguardo: che non nega la complessità, ma la abita con un cuore che sa riconoscere il dono.

Che ogni Eucaristia che celebriamo – questo grande “grazie” di Cristo e della Chiesa – diventi per me e per voi, presbiteri e diaconi, il luogo dove il Signore ripete: “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato”.

Che il nostro ministero, pur povero e fragile, rimanga un Magnificat in cammino: una vita che, in mezzo alle contraddizioni della storia, continua a dire: «La mia anima esulta nel Signore».

+ vescovo Giuliano