Dopo 18 anni don Piero Melotto è rientrato dalla Thailandia

Al suo posto come fidei donum nel paese asiatico c'è ora don Francesco Cunial

 
«Sono stupito: è più facile connettersi a internet in Thailandia che in Italia». Don Pietro Melotto, 69 anni, è rientrato da una decina di giorni in Italia, dopo aver trascorso 18 anni in Thailandia come fidei donum della missione del Triveneto di Chaehom e Lamphun, nella diocesi di Chiang Mai.

«Mi sento un po’ come il navigatore che deve ricalcolare il percorso – racconta -. Eppure sono ricco di entusiasmo, come quando sono partito. Se penso che il vescovo Nonis mi aveva chiesto se volevo stare via un paio d’anni… “Mi porti a casa qualche reperto archeologico”, diceva!».

Don Pietro, cosa ricorda del suo arrivo in Thailandia?
«Ho dovuto ritornare bambino. Dipendevo da tutti! Era un mondo completamente nuovo, dove si parlava una lingua che non conoscevo. Ha richiesto tempo impararla, ma questo è stato un bene: un mondo complesso come quello asiatico richiede di entrarci un po’ alla volta. Altrimenti si combinano guai».
 
Com’è stato l’ultimo saluto con quelle popolazioni?
«C’è stata una bella partecipazione spontanea dei buddhisti. Hanno sempre sentito la Chiesa vicina nei loro momenti forti e hanno voluto essere a loro volta vicini a questo momento di vita della nostra Chiesa»

E il rientro in Italia come è stato?
«Sono felice del fatto che la nostra diocesi, a differenza di altre, ha tenuto aperte le tre finestre della missione: America latina, Africa e Asia. Se in missione va qualcuno che conosci poi si resta attenti a quei luoghi, che sono una parte vasta del mondo. Altrimenti ci si chiude in se stessi e cresce la paura. Qui in Italia vedo molta gente di buona volontà, però percepisco un clima di paura, di accerchiamento».
 
Non c’è questo clima di accerchiamento in Thailandia? In fondo i cattolici sono una piccola minoranza.
«Qui siamo passati dall’essere tutti cattolici al pluralismo, forse con un senso di lacerazione, di aver perso qualcosa. In Asia, invece, il pluralismo è la realtà in cui le Chiese vivono. Quando sei piccolo in mezzo a tanti altri, non puoi mettere la Chiesa al centro, pensando di attirare chi sta fuori: devi lavorare assieme a tutti gli altri per il Regno di Dio. E se tu credi che Dio è Padre di tutti e che lo Spirito opera in tutti, allora vivi nella speranza, non hai paura e non ti senti accerchiato».
 
Pensa che sia questo l’insegnamento che può venire dalle Chiese asiatiche?
«Noi abbiamo ricevuto molto dall’America latina, qualcosa abbiamo preso dalla teologia dell’Africa, ma dell’Asia non sappiamo ancora niente. Eppure i documenti dei Vescovi asiatici andrebbero conosciuti perché sono molto ricchi. E uno degli aspetti centrali è proprio quello del pluralismo. Infatti, per loro, l’armonia arriva dalla diversità che viene accolta e valorizzata».
 
Come è visto Papa Francesco da una Chiesa così “di periferia”?
«Abbiamo letto con grande passione l’Evangelii gaudium. Il tema della misericordia ha ricevuto una grande accoglienza nel mondo induista e buddhista perché sono religioni che partono dal concetto per cui gli uomini sono fratelli nel dolore. La vita ha il dolore come fondamento: perché, allora, non avere compassione degli altri? È un atteggiamento molto radicato nella società».
 
Per lei, qui in Italia, che cammino comincia?
«Non ho desideri, perché come dice il Buddha, i desideri causano sofferenza! Scherzi a parte, mi piacerebbe fare vita di comunità assieme ad altri preti e avere il tempo di coltivare l’interiorità, altro aspetto importante della cultura thailandese. Vedremo cos’altro mi domanderà il Vescovo».
 
Dopo diciotto anni, insomma, si ricomincia.
«Come dicevo, ho ancora entusiasmo. La lingua madre, il dialetto, lo parlo ancora bene. Per me è stata una fortuna vivere questa lunga esperienza. Spero di poter trasmettere qualcosa».

Andrea Frison
Articolo da La Voce dei Berici di questa settimana