Che altro mi manca?

 
Carissimi, carissime
porto ancora nel cuore e nella mente la gioia e la consolazione degli incontri che abbiamo condiviso nelle dieci zone della nostra diocesi insieme all’équipe della pastorale giovanile e vocazionale. Vi abbiamo ascoltati con molta attenzione e con una sana curiosità, abbiamo partecipato alla fantasiosa ed efficace regia dei vari appuntamenti, abbiamo conosciuto e accolto «la vostra voce, la vostra sensibilità,la vostra fede e anche i vostri dubbi e le vostre critiche » (cfr. Documento preparatorio alla XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi).
 
Abbiamo raccolto in una sintesi piuttosto sostanziosa le vostre sincere e sentite considerazioni e le abbiamo spedite alla Segreteria del Sinodo per offrire un contributo concreto all’Assemblea sinodale che si terrà nel prossimo ottobre a Roma. Abbiamo deciso, inoltre, di riportare anche in questa lettera quanto abbiamo ascoltato da voi perché possa diventare occasione di dialogo e di approfondimento con la componente adulta della comunità (genitori, educatori, consigli pastorali, animatori della Liturgia, della Catechesi, della carità e del sociale). Confidiamo che i diversi capitoli in cui abbiamo suddiviso i vostri interventi possano favorire un dialogo libero e fecondo all’interno delle comunità cristiane e anche all’interno di altri contesti che abitate. Ecco i temi affrontati: giovani e adulti della comunità cristiana, giovani e fede, giovani e Chiesa, giovani e società, i desideri dei giovani, le criticità dei giovani, le proposte emerse dagli incontri. Proponiamo, quindi, alle nostre comunità di adulti, di giovani, di animatori, di continuare anche il prossimo anno l’ascolto reciproco, il dialogo e la condivisione di scelte e iniziative per promuovere – con l’aiuto della grazia di Dio – una nuova primavera di vita, di fede e di speranza per la Chiesa di Dio che è in Vicenza. Come è ormai tradizione, desidero iniziare questa Lettera pastorale proponendovi una icona evangelica sulla quale meditare, per trarre luce, forza e ispirazione per il cammino sinodale di questo nuovo anno pastorale che si apre davanti a noi. Abbiamo scelto, assieme all’équipe della pastorale giovanile e vocazionale, il brano evangelico di Matteo (19,16-22), chiamato comunemente ‘Il giovane ricco’, dal quale abbiamo estrapolato il titolo della lettera «Che altro mi manca?» (Mt 19,20). Per un maggior approfondimento abbiamo pensato di riportare in modo sinottico anche la narrazione di questo episodio secondo gli evangelisti Marco e Luca.
 
Un inizio un po’ anonimo (v. 16)
Il personaggio che si avvicina a Gesù per porgergli una domanda cruciale, compare sulla scena evangelica senza presentazione alcuna: è semplicemente «un tale» (v. 16), un uomo qualunque, di cui non viene detto né il nome, né la professione e nemmeno il villaggio da cui proviene. Dunque, all’inizio almeno, la sua identità rimane immersa in un evidente anonimato. Solo più avanti nel contesto l’autore fornirà un paio di dettagli preziosi per la comprensione della sua identità: è un «giovane» (v. 20), che possiede «molte ricchezze» (v. 22). Nell’incipit, dunque, si sa soltanto che «si avvicina» a Gesù (il parallelo di Marco 10,17 dice che gli «corse incontro», dettaglio questo che evidenzia ancor più la fretta o l’ansia che lo attanaglia nella ricerca). Qui non si sa molto di lui, ma si viene a sapere una notizia assai significativa: il giovane abbandona la genericità della folla e supera la distanza che lo separa da Gesù. Ha il coraggio di uscire allo scoperto per porgli una domanda personale (che verrà via via precisandosi in tre quesiti).
 
Una domanda un po’ scontata (vv. 16-19)
Fare domande ad un maestro era consueto nel contesto di allora, solo che i vangeli ci hanno abituati ad approcci per nulla spontanei e sinceri nei confronti di Gesù: spesso i farisei o altri suoi avversari gli si sono accostati ponendo quesiti, sì, ma molte volte con un’intenzione disonesta. Pochi versetti prima, infatti, si ricorda che lo interrogavano «per metterlo alla prova» (19,3). Qui, invece, si viene immediatamente a sapere che il giovane si avvicina per un desiderio autentico di apprendere: egli
riconosce a Gesù il titolo di «maestro» e gli chiede «cosa debba fare di buono per avere la vita eterna» (v. 16). Questo «cosa di buono» che andava fatto era di per sé abbastanza scontato: non sembra una domanda interessante, perché tutti sapevano che «buono» è ciò che è conforme alla volontà di Dio così come testimoniato dalla Bibbia. Infatti, Gesù non gli fornisce una vera e propria risposta, limitandosi a ricordare ciò che era conosciuto da tutti: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (v. 17). Dio stesso, – l’unico a meritare il titolo di “buono” ‒ ha da sempre fissato ciò che di buono si deve fare nella Legge, vale a dire nei comandamenti: basta osservarli. Ogni israelita sa che l’ingresso nella vita eterna è garantito dal mettere in pratica la Legge. Gesù in questo non è per niente originale. D’altra parte, era consueto nel mondo rabbinico partire dalle domande più semplici per arrivare, tramite il dibattito, a porre i quesiti più complessi; ad esempio, proprio attorno all’ovvietà dell’osservanza dei comandamenti, faceva seguito il quesito su quale poteva essere considerato il più grande di questi (cf. Mt 22,36)1. Ecco, dunque, la domanda del giovane: «Quali?» (sottinteso: «comandamenti»), cui Gesù dà risposta richiamandone alcuni e aggiungendo il comandamento dell’amore: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso»» (vv. 18- 19). Di per sé tale quesito sembra superfluo – come del   resto anche la stessa risposta di Gesù – perché il giovane ne non ha nessun bisogno di sentirsi ricordare i comandamenti, perché, dal momento che li osservava alla perfezione (cf. v. 20), non li ignorava di certo! Piuttosto, la domanda e la conseguente risposta di Gesù hanno lo scopo di far uscire il giovane dall’anonimato per farci conoscere il suo profilo morale. 
 
Un profilo meraviglioso, ma… (v. 20a)
Infatti, Gesù non controbatte rimproverandogli di essere presuntuoso ed evita di ricordargli che nessuno può pretendere di mettere in pratica alla perfezione i comandamenti; la Bibbia stessa ci ricorderebbe che anche il giusto pecca «sette volte al giorno» (cf. Pr 24,16). Probabilmente il giovane ha risposto un po’ in fretta e con una punta di ingenuità, ma né Gesù, né l’evangelista vogliono mettere «i puntini sulle i»; semplicemente registrano la sua integrità e il suo slancio sincero nel voler praticare la volontà di Dio nella sua vita. In altre parole, la domanda del giovane e la risposta di Gesù (entrambe abbastanza scontate, come si diceva) mirano a evidenziare tutta l’onestà morale e religiosa del giovane. Noi oggi diremmo con una certa ammirazione che questo soggetto è un po’ ingenuo, certo, ma che fondamentalmente è «una persona buona e onesta». I suoi contemporanei forse avrebbero detto: è un «pio israelita», è «un giusto». Questo giovane non può che suscitare stima e simpatia. Eppure, a questo coro totalmente positivo di ammirazione fa seguito una sorta di – provvidenziale stonatura – in questo ritratto stupendo si presenta una piccola macchia: la dichiarazione palese di una carenza: «Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?» (v. 20). Il profilo, a prima vista perfetto, agli occhi dell’interessato perfetto non è: gli manca qualcosa. Ora la domanda del giovane non è più scontata. Se il quesito precedente era abbastanza facile da evadere, uesto no, perché si pesca sul personale. Egli non pone più una domanda generica, teorica, che abbraccia la condizione di tutti, ma si espone in prima persona: «cosa altro manca a me»? Dalla disputa sui massimi sistemi, quindi si passa ora alla dimensione privata, personale. Se il giovane fin qui era uno sconosciuto, ora ci rende partecipi della sua intima – e forse tormentata – ricerca.
 
Che altro mi manca? (v. 20b)
  Il livello raggiunto da questo giovane è – dicevamo – davvero elevato: egli comprende che per avere la vitaeterna occorre osservare la Legge e il comandamento  dell’amore, e, cosa ancor più sorprendente, non solo queste cose le “sa”, ma le “vive” anche. Eppure, tutto questo ancora non gli basta. Conosce la strada per giungere alla vita eterna e vi è già seriamente e generosamente incamminato, cosa lo tormenta ancora? Si reca da Gesù precisamente in cerca di una risposta radicale, che gli mostri come raggiungere quel qualcosa che gli manca e che ancora non sa. Questo giovane porta in cuore una carenza, un vuoto che desidera colmare, solo che non sa come fare. Non sa che nome dargli. Spesso una percezione di questo tipo può essere dolorosa, e, al limite, può anchecondurre alla disillusione, alla ribellione o ad atteggiamenti rinunciatari. Scoprire il proprio vuoto interiore, per quanto piccolo, può essere insopportabile e porta all’ansia di colmarlo prima possibile, a limite anche con scelte immediate e sbagliate. «Tutti i peccati sono dei tentativi di colmare dei vuoti», diceva Simone Weil. L’uomo da sempre teme il vuoto, tanto che i medievali hanno coniato la formula «horror vacui»: il vuoto fa paura. Ciononostante, esperimentare la propria insufficienza, sentendo un’incompletezza che chiede di essere saturata, può diventare l’occasione per una seria ricerca di autenticità. Ammettere onestamente che ci manca qualcosa è il primo passo per il cammino verso la pienezza. «Cosa mi manca?» potrebbe anche suonare come il desiderio di aggiungere semplicemente un’altra pratica religiosa a quelle già generosamente vissute in vista di un guadagno sia spirituale che economico. Il pensiero del giovane potrebbe pressappoco risuonare così: «Avendo più ricchezze, posso fare più elemosine e quindi aumentare il mio capitale in vista della vita eterna […]. L’accumulare quaggiù mi dà la possibilità di accumulare anche lassù»2, e viceversa. Ma Gesù, con la sua provocazione, vorrebbe sovvertire radicalmente tale ‘modalità finanziaria’ di rapportarsi a Dio: per garantirsi un «tesoro in cielo » non si deve aggiungere, ma togliere. Non l’accumulare conta, ma il disfarsi. Per guadagnare bisogna perdere. In fondo, l’unica cosa che manca al giovane è la “perdita”. Il finale, purtroppo, mostra come questa mentalità è difficilissima da scardinare.
 
La perfezione (v. 21)
Alla domanda appassionata del giovane Gesù risponde con una risposta lapidaria, chiarissima quanto a condizioni, a difficilissima da realizzarsi: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (v. 21).  L’invito di Gesù suona come una sfida, sia perché prospetta al giovane un orizzonte di perfezione, sia perché la posta in gioco è elevatissima: vendere tutto in favore dei poveri e mettersi alla sua sequela. Gesù ha davanti un giovane che fa già tantissimo, eppure non teme di proporre un orizzonte ancor più impegnativo. La sua proposta   semplicemente totalizzante. Tanto da sembrare irrealizzabile. Nel parallelo di Marco viene ricordato un  dettaglio bellissimo: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse… (10,21). Innanzitutto la perfezione. Non si tratta – come per la cultura greca – di un adeguamento completo all’ideale dell’uomo perfetto (vale a dire la combinazione armonica di bontà e bellezza), ma di una piena obbedienzaa Dio. Tale condizione non indica una meta lontana cui  tendere, ma il cammino deciso che si intraprende. In altre parole “perfetti” non sono quelli senza difetti e irreprensibili, ma coloro che vogliono con tutto loro stessi aderire alla volontà buona di Dio. Quindi con “perfezione” non si intende affatto «il gradino più alto della carriera cristiana, una condizione alla quale sono chiamati solo pochi cristiani “migliori”»3, ma un dinamismo tendenzialmente infinito. E nel vangelo questo cammino  si realizza concretamente mettendosi al seguito di Gesù, cercando di vivere il comandamento dell’amore. Per questo la risposta di Gesù finisce non con un’esortazione ma con un comando: «seguimi!». Anche in precedenza l’evangelista aveva strettamente  connesso il comando di amare i nemici con l’idea di perfezione (5,43-48)4.
 
Dal cosa al chi…
Ora, questo cammino di sequela per giungere alla perfezione dell’amore prevede delle tappe precise: vendere tutto, darlo ai poveri e aderire pienamente a Gesù. Come  si può notare nelle parole del Maestro emerge una evoluzione preziosa: dal cosa mi manca al chi ti manca. Al giovane ricco mancano i poveri e Gesù stesso. In questo senso, allora, la carenza avvertita in senso quantitativo da parte del giovane, riceve una risposta in senso relazionale. Ad impedire questo passaggio dal cosa al chi purtroppo si frappone un ostacolo: le ricchezze. Bisogna liberarsene, perché da garanzie esse si trasformano abbastanza in fretta in palla al piede (come purtroppo dimostrerà la conclusione di questo stesso episodio). I beni promettono libertà e felicità, ma non sono in grado  di garantirle se non a patto che vengano dati via per i poveri. Le proprietà rendono liberi, felici solo nel momento in cui sono donate. È precisamente questo il passaggio dal tesoro sulla terra al «tesoro in cielo» (v. 21) prospettato da Gesù. E questo vale per tutti: non è un consiglio per pochi (riservato ad esempio ai religiosi o ai preti). Certo, rimane una sfida aperta per ogni generazione
cristiana rendere concretamente percorribile questa richiesta di Gesù: è possibile dare via tutto per i poveri senza trattenere nulla? Cosa può significare questo per l’oggi? In quale modalità si può tradurre questa istanza così radicale? Va notata, a questo punto, come si stagli in tutta la sua autorevolezza la persona di Gesù: non si tratta più di seguire  i precetti della Torah, ma lo stesso Gesù. Non più i comandamenti pronunziati da Dio in persona vanno eseguiti, ma la volontà del Maestro di Nazaret: «segui me» si sente dire il giovane. Questa svolta costituisce sicuramente, per un giudeo del primo secolo, la rivoluzione più sorprendente e radicale dell’assetto religioso di allora. Vale la pena insistere su questo punto: per fare la volontà di Dio ed ereditare la vita eterna non si deve osservare solo la parola di Dio contenuta nell’Antico Testamento, ma è necessario aderire a Gesù. D’ora in poi bisogna seguire Lui. A margine si può evidenziare pure un sottile senso di ironia. Il ricco è definito per l’appunto «giovane »; e l’aggettivo «perfetto» (téleios) si può tradurre anche con «adulto»5. Si potrebbe, dunque, comprendere la frase di Gesù anche in quest’altra modalità: «Tu che sei giovane, se vuoi essere adulto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri…». In questo caso Gesù prospetterebbe un cammino di crescita umana e spirituale. Per diventare uomini maturi nella vita e nella fede si deve passare dall’accumulo al dono, dall’accentramento su di  sé al decentramento da sé. Il giovane alla fine rifiuta di crescere, di diventare un uomo adulto.
 
La tristezza (v. 22)
La conclusione è sconcertante. Se da una parte mostra come Gesù sia così rispettoso della libertà altrui da accettare pure il rifiuto, dall’altra non può non stupire un con- gedo così mesto: «Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze» (v. 22). Il tesoro sulla terra si è rivelato una tremenda zavorra: ha realmente impedito al giovane ricco di acquisire il «tesoro in cielo». E qui non si può non sperimentare una sorta di vertigine: le premesse sono ottime ma il risultato finale è triste. Un giovane buono, onesto e generoso, dotato di un animo sensibile e aperto alla ricerca, sciaguratamente involve e si blocca. Aveva tutte le carte in regola per fiorire, ha scelto invece di rinsecchire. «Non era pronto ad abbandonare il suo mondo confortevole e sicuro per quello sconosciuto e soprendente in cui Gesù lo chiamava. Si era identificato con la sua ricchezza; non voleva trovare una nuova identità»6. Qui si spalanca un vuoto più grande di quello avvertito all’inizio: se la carenza iniziale poteva essere feconda, perché indice di un desiderio, ora la carenza finale è drammatica, perché paralizzante e deprimente. È l’assenza della felicità, che è la linfa della ita. Il vuoto iniziale poteva salvarlo, lui invece è precipitato dentro alla voragine della tristezza. Questo tale arriva da Gesù giovane, ma se ne va interiormente vecchio. Invece di diventare adulto (téleios), giunge rapidamente alla vecchiaia. Ci ricorda il papa: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode iù della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita» (Esortaz. apost. Evangelii gaudium, n. 2).
 
 
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01/09/2018