Ho dato alla meditazione il titolo “Discepoli della speranza”. Vorrei precisare subito: quando parlo di speranza, non intendo tanto la “virtù” della speranza ma l’umanità di Gesù Cristo. Potrei anche tradurre: “Discepoli dell’umanità di Gesù Cristo”.
Resto profondamente convinto che quello che manca oggi alla Chiesa è la frequentazione dell’umanità di Gesù. La narrazione di Dio continua ad avere tratti troppo metafisici, poco concreti e, spesso, il volto di Dio che va in onda non è il Dio di Gesù Cristo, ma è il Dio della forza, della potenza, un Dio che col Vangelo ha poco a che spartire. E sono pure convinto che qualcuno si tiene lontano dalle stanze ecclesiali perché, non raramente, percepisce una narrazione di Dio che non è quella del Dio Nazareno.
Se poi guardo alla storia della Chiesa, vedo che tutti i momenti di ripresa e di riforma sono passati attraverso figure che hanno riportato al centro l’umanità di Cristo. Penso a San Francesco, Teresa d’Avila e molti altri… La loro riforma aveva al cuore proprio la frequentazione dell’umanità di Gesù Cristo.
Dire discepoli di speranza vuol dire quindi mettere in cantiere il fatto che nell’umanità di Gesù Cristo mi porto a casa un volto di Dio che diventa lampada, luce e serenità. Per farlo, utilizzo qualche passaggio del Vangelo di Marco e il brano appena letto, l’incontro con Bartimeo.
Dio innovativo
Come sapete, il Vangelo di Marco nella prima parte punta, soprattutto, a mettere a fuoco l’identità di Gesù; nella seconda parte, invece, attraverso anche una serie di volti e di personaggi, va a indagare maggiormente l’identità del discepolo.
La prima parte si conclude con la professione di Pietro: “Tu sei il Cristo” – anche se termina in realtà con quelle parole durissime di Gesù a Pietro: “Va’ dietro a me, Satana” –. In essa emerge un volto di Dio estremamente innovativo, partendo dall’umanità di Cristo. Dopo duemila anni, potremmo dire “super innovativo”.
Tale da porci un certo imbarazzo e indurci a tenerci un po’ alla larga; il “va’ dietro a me, Satana” vale anche per noi, perché anche noi facciamo fatica a dialogare con questo Dio innovativo che, anziché far morire l’uomo per sé, è Lui stesso a morire per l’uomo. Questo Dio ha i tratti disadorni di un volto sfigurato, che muore abbracciando il nemico; ha il volto dell’affaticato seduto al pozzo di Sicar o il volto drammatico del Getsemani, con il grido “Passi da me questo calice”.
Gesù Cristo, volto di Dio
Ebbene, io sono convinto che oggi uno dei grandi problemi che abbiamo dentro la Chiesa sia il fatto che stiamo pensando una riforma, una ristrutturazione della Chiesa che – è evidente – si deve fare, ma la pensiamo a latere di Gesù Cristo.
Noi continuiamo a parlare di Chiesa, di strutture da assestare, ma facciamo una riforma senza Cristo. Siamo concentrati sul funzionamento ecclesiale, ma non sul rivedere il volto di Dio che Gesù Cristo ci consegna.
Rischiamo di riformare un marchingegno operativo, ma senza i colori belli della grammatica di Cristo, con i suoi tratti di debolezza “bella”, che in realtà è forza del “morire per”, del perdonare, del dare la vita.
E allora credo davvero sia arrivato il momento di chiedersi: “Che Dio frequento io? Quale volto di Dio offre all’uomo contemporaneo la nostra comunità credente?”.
Da più parti si sottolinea che il mondo giovanile ha una domanda di spiritualità, sta cercando senso per la vita, ma non lo trova nelle stanze ecclesiali.
Ecco, io sono convinto che, in parte, il fatto che non lo trovi sia perché, anziché trovare il Dio leggero e meraviglioso dell’espropriazione di sé e del farsi prossimo, trova gente agitata, in ansia, spaventata perché ha perso la forza del passato, imbarazzata perché non la chiamano più sui tavoli che contano.
In quest’ora io vedo un’ora bella, nella misura in cui la nostra Chiesa, le nostre Chiese, sapranno ripartire dal mettere al centro l’umanità di Cristo, la frequentazione assidua, costante, di quella parola di Dio e di quei Vangeli che ci danno il codice nuovo su Dio che, appunto, è l’umanità di Gesù Cristo.
Il giovane ricco
Prendendo in mano alcuni passaggi della seconda parte del Vangelo di Marco, ci soffermiamo sulla figura del giovane ricco, dove Gesù delinea l’identità del discepolo. Il giovane pone una domanda essenziale sulla felicità: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?” In sostanza, chiede come dare colore alla vita, come renderla piena e felice. Questa domanda attraversa l’essere umano di ieri, di oggi e di sempre, ed è dentro ciascuno di noi, anche se spesso non la esplicitiamo. Dalla mattina alla sera cerchiamo il modo di stare bene, di trovare un senso alla nostra esistenza. Anche noi preti, pur talvolta stanchi, siamo abitati da questa ricerca di felicità.
Ma cosa impedisce al giovane ricco di incontrare veramente Gesù? Perché se ne va triste? Il testo dice: “Perché aveva molti beni”. Questo ci porta a riflettere. Oggi siamo spesso convinti che la vita necessiti di una base economica solida per funzionare. Misuriamo la felicità col Prodotto Interno Lordo. Eppure, l’Europa, con un PIL più alto rispetto ad altre zone del mondo, non è certo il terreno della felicità. Dobbiamo liberarci dall’idea che la felicità dipenda dalle risorse economiche. Non servono strutture, risorse o procedure per “sbarcare il lunario della felicità”, ma volti e relazioni.
Dov’è il tesoro del nostro cuore?
È necessario chiederci dove sia il tesoro del nostro cuore: nei volti o nelle attività e nelle performance? Spesso, il nostro tesoro è il desiderio di accreditamento, il consenso, l’applauso, e non i volti. Questo vale anche per il ministero: non sempre è ricerca di volti, ma ricerca di successo personale. La delusione per le chiese vuote è più legata al mancato successo personale che all’assenza di incontro con Cristo. Le nostre comunità devono interrogarsi: favoriscono l’incontro e il cammino insieme, o prevalgono dinamiche di invidia, ritorsioni e desiderio di protagonismo?
Dobbiamo abbandonare non solo la dipendenza dal denaro, ma anche la logica delle performance. La Chiesa non dovrebbe essere il terreno dei vincenti, ma dei compagni di viaggio, di chi cammina insieme. Immagino una Chiesa come una “gara non competitiva”, dove ci si ferma a guardare il paesaggio e a condividere momenti con gli altri, anziché una corsa solitaria verso il podio. La felicità si trova nei volti, non nelle performance. Quando perdiamo di vista i volti, perdiamo anche la felicità. “Se ne va triste”. A volte la gente se ne va triste dalle nostre comunità, perché abbiamo abdicato da troppo tempo a cercare la felicità nei volti. Il Dio di Nazareth ci provoca: “Dov’è tuo fratello?”, “Avevo fame, mi hai dato da mangiare, avevo sete, mi hai dato da bere”.
I figli di Zebedeo
Un altro passaggio del Vangelo di Marco è quello dei figli di Zebedeo. Chiedono a Gesù di sedere alla sua destra e alla sua sinistra, cercando potere e gloria. Questo è un rischio per noi ministri: diventare un mondo parallelo, lontano dalla vita reale e dalla logica di Gesù Cristo. Anche gli apostoli, come i figli di Zebedeo, sbagliano: ragionano in termini di potere, non di umanità. Dobbiamo fare attenzione a non trasformarci in un club chiuso, dominato dalla logica del potere e della gloria, dimenticando la bellezza dell’umanità di Cristo, che fa del volto dell’altro la via maestra per la felicità.
Bartimeo
Bartimeo è cieco, gli è rimasto solo il grido. In questo momento storico, vedo la Chiesa in una condizione simile. Mi servo delle parole di Geremia “Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare”. Non vediamo chiaramente e ci aggiriamo incerti. È un’epoca di buio globale, non solo per la Chiesa, ma anche per la politica e l’economia. Tuttavia, in questo buio, rimane un grido che ha un connotato personale, un connotato comunitario, vorrei dire un connotato globale. L’umanità in questo momento sta male, sta cercando da qualche parte la luce. Il rischio è soffocare tale grido, rassegnandoci. Ma Bartimeo non si rassegna: grida, resiste, cerca luce. Qualche volta ce lo diciamo tra di noi: “ma tanto non cambia nulla. L’ho già visto, già fatto, lascia stare, cosa vuoi mai, c’est la vie, andiamo avanti così…”
Bartimeo la luce la va a cercare nel figlio di Davide che sta passando. Ebbene, questo vorrebbe essere anche un po’ la consegna di questa mia meditazione: dobbiamo tornare innanzitutto a dirci la verità su di noi, a tirar fuori quel grido di inquietudine che ci abita, a resistere alla tentazione di ricacciarlo indietro e di dire ‘ma tanto non cambia nulla’. Sta passando Gesù di Nazareth; questo può essere un momento bellissimo per la Chiesa, un momento fantastico. Può essere il momento per la Chiesa di ripensarsi, di diventare sale e lievito, di muoversi leggera, investendo in relazioni autentiche.
Chiesa mite
Vorrei una Chiesa mite, che non cerca di imporsi, ma di liberare le voci e le vite degli altri. Una Chiesa che si pone come ostetrica, che fa emergere la bellezza nascosta nelle persone. Durante la mia Visita pastorale, sto trovando vite bellissime, volti che danno speranza. Vorrei una Chiesa che ascolta, che si fa prossima, che racconta di essere stata perdonata.
Un’ultima osservazione. Nel brano si dice: “la tua fede ti ha salvato”. Interessante la sottolineatura “la tua fede”. La fede nasce dall’ascolto e si nutre della consapevolezza della misericordia ricevuta. “Va’ e racconta che ti è stata usata misericordia. Questa è la Chiesa.
Noi stessi, come Chiesa, abbiamo bisogno di sentire le parole: “Alzati, ti chiama, coraggio”. Dobbiamo lasciarci attrarre da Gesù di Nazareth, abbandonando la logica della performance e accogliendo quella della mitezza.
Una Chiesa che cammina sulla strada della brezza leggera, della delicatezza e dell’ascolto può avere un futuro bellissimo. Non saremo più al centro del potere, saremo di molto ridimensionati. Ma saremo un piccolo frammento del Regno di Dio, una buona notizia per il mondo.
Penso alla storia, ai suoi drammi, alle guerre. Ma quando passo a incontrare i volti delle persone ritrovo vita. E allora, sotto tutti i cieli – da quello di Gaza a quello di Kiev, a quello del Libano –, in queste ore si stanno alzando uomini e donne, discepoli della speranza che al vivere per sé stessi sostituiscono il farsi prossimo, l’ascoltare, l’accreditare. Questo impedisce al mondo di implodere. Davvero, Cristo è re dell’universo perché vi sono coloro che scelgono di non essere performanti, ma compagni di viaggio, fratelli e sorelle alleati gli uni degli altri, impegnati a far vivere anziché sottrarre vita.
+ Lauro Tisi
Arcivescovo di Trento