INCONTRO DI RIFLESSIONE E CONDIVISIONE PER PRESBITERI E DIACONI IN OCCASIONE DELLA SOLENNITA’ DEL SACRO CUORE DI GESU’

La riflessione proposta dal Vescovo lo scorso 14 giugno ai presbiteri della diocesi

INCONTRO DI RIFLESSIONE E CONDIVISIONE PER PRESBITERI E DIACONI

IN OCCASIONE DELLA SOLENNITA’ DEL SACRO CUORE DI GESU’

 

Centro diocesano Onisto, 14 giugno 2024

 

«Vorrei raccomandarvi di porre alla base di tutto la condivisione e la fraternità fra voi e con i vostri Vescovi (…) Non possiamo essere autentici padri se non siamo anzitutto figli e fratelli. E non siamo in grado di suscitare comunione e partecipazione nelle comunità a noi affidate se prima di tutto non le viviamo tra noi» (Francesco, Lettera ai Parroci, Roma, 2 maggio 2024)

 

Condividiamo questa mattinata in occasione della solennità del Sacro Cuore di Gesù (traferita ad oggi perché ero impegnato nel Pellegrinaggio con gli ammalati a Lourdes). Vogliamo darci del tempo per ravvivare la nostra fraternità presbiterale – insieme alla comunità diaconale – per mezzo della preghiera, della riflessione sul nostro vissuto ministeriale, del discernimento che siamo chiamati a vivere in questo tempo per essere la Chiesa di Cristo in cammino verso il regno.

L’anno scorso ci è stata presentata una riflessione sul futuro della nostra chiesa diocesana, frutto di quanto era emerso nel consiglio presbiterale e nel consiglio pastorale diocesano. Da quella riflessione è nata la proposta di offrire, innanzitutto a livello vicariale e successivamente nelle singole parrocchie e unità pastorali, uno sguardo sulle possibilità reali delle nostre comunità cristiane di essere ancora capaci di annuncio gioioso del Vangelo; comunità vive e generative. Con la conseguenza di permettere ai presbiteri una vita più generativa.

I consigli diocesani avevano fatto emergere tre direttrici di cambiamento espresse in tre domande: 1) Un nuovo volto di Chiesa?; 2) Nuove ministerialità?; 3) Quale conversione del ministero presbiterale?

Si tratta di domande e non di risposte. Questo implica che siamo tutti in ricerca: presupposto fondamentale di un cammino sinodale. Stiamo cercando insieme di comprendere un passo dopo l’altro la direzione da seguire. Ritengo sia davvero importante che avvertiamo la responsabilità di essere un unico presbiterio a servizio del popolo di Dio. Noi, certamente con le nostre caratteristiche e originalità personali, siamo a servizio del popolo di Dio. Non siamo “battitori liberi”, dove ciascuno può andare avanti da solo o con alcune persone che si è scelto. Questo non significa comprimere la creatività e le necessarie sperimentazioni. Dobbiamo però, sempre chiederci: con chi mi confronto e mi verifico (a livello di Unità pastorale e di Diocesi) nella proposta di nuovi percorsi? Così da evitare scelte e iniziative legate alla singola persona le quali rischiano di non avere continuità!

Da un lato vi sono le dimensioni fondanti il nostro essere discepoli di Gesù costituiti in comunità cristiane, dall’altro vi è quel “cambiamento d’epoca” che ci interpella. Ci è stato ricordato nelle settimane residenziali del clero che siamo immersi in uno di quei momenti nei quali “i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza” (Francesco, Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2019).

Il cambiamento d’epoca ci chiede di riconoscere i “segni dei tempi”. Richiamo qui un passaggio interessante di don Erio Castellucci, vescovo di Modena-Nonantola e Carpi, laddove delinea il travaglio che le nostre chiese in Italia – sembra più al nord che al sud – stanno vivendo una volta tramontata la condizione di “cristianità”. È vero che ci sono i “nostalgici” (soprattutto i ‘tradizionalisti’ che non hanno partecipato al cammino sinodale ritenendolo fuorviante) e pure i cosiddetti “progressisti” (molto attivi ma prospettando un percorso democratico non corrispondente all’originaria forma di Chiesa e spingendo su temi impegnativi le cui competenze esulano dal contesto italiano). Egli aggiunge:

Il popolo di Dio che in Italia, almeno quella parte che è intervenuta nel Cammino [sinodale], evita entrambe le derive. Pur indulgendo talvolta al lamento e alla nostalgia, rifiuta di ritirarsi dalla società e rassegnare le dimissioni dall’annuncio del Vangelo. Nessuno è entusiasta per il tramonto della cristianità – anche perché le strutture della cristianità le dobbiamo ancora gestire tutte, o quasi – e nessuno cade nell’esaltazione di una pastorale della ‘decrescita felice’; ma la maggioranza dei cattolici comincia a porsi davanti a questo fenomeno in modo, appunto, creativo, generativo, leggendo come uno dei ‘segni dei tempi’ (cf Mt 16,3). In fondo il sensus fidei fidelium percepisce che lo Spirito Santo, attraverso la storia, sta suggerendo una forma diversa dell’essere Chiesa, una vera ri-forma che chiede di ‘uscire’. Uscire da che cosa? Da forme consolidate ma ormai obsolete  (Cammino sinodale: verso la fase “profetica”, 21 maggio 2024, p. 5, pro manoscritto).

È evidente che questi cambiamenti toccano anche l’esercizio del ministero presbiterale. Io stesso conoscendo poco per volta questa Chiesa diocesana mi sto rendendo conto che dobbiamo insieme – anche insieme agli altri fedeli laici e consacrati – ri-comprendere il profilo del ministero pastorale dei presbiteri ai quali sono affidate le comunità cristiane parrocchiali (quello dei diaconi, avendo meno storia è più facilmente riformabile).

Mi permetto di segnalare ciò che io ho avuto modo di “scoprire” e che ritengo sia degno di essere approfondito ulteriormente. Naturalmente ciò che ho potuto raccogliere sono aspetti che sono in corso di elaborazione nel nostro presbiterio, non del tutto digeriti da alcuni, ritenuti insufficienti da altri. Li vorrei riprendere così come li ho percepiti e compresi (con i limiti di chi è arrivato da poco).

  1. Il progressivo superamento della figura tradizionale del ‘parroco’ con la sua parrocchia

Mi pare piuttosto evidente che nei passi compiuti dall’ultimo Sinodo diocesano ad oggi si sta abbandonando la ‘figura tradizionale’ del parroco con la sua parrocchia. È stato così per molto tempo e, da quanto ho capito, un certo numero di parrocchie sono state costituite, dopo la metà del secolo scorso, in funzione di attribuire a preti disponibili la cura pastorale di una parrocchia, garantendo a tutti il necessario per vivere. Il ministero presbiterale del parroco ha rappresentato il modo ordinario di essere prete di intere generazioni. Anche per buona parte del presbiterio attuale, la formazione seminaristica ha avuto come obiettivo la formazione di ‘buoni parroci’. Il pregio di questa figura è la relazione che si veniva a costituire tra parroco e fedeli presenti in un certo territorio. La stabilità della nomina permetteva al parroco non solo di conoscere i suoi fedeli ma pure di accompagnarli nelle tappe spirituali più significative. Talora questo ha significato anche un ‘peso sociale’ del parroco, nelle questioni economiche e politiche.

Oggi questo modello si è progressivamente dissolto. Perché è mutata la cultura e sono mutati i comportamenti della popolazione. La cultura digitale permette relazioni ben al di là del territorio di una parrocchia e le persone si muovono facilmente al di fuori della propria parrocchia; tendenzialmente cercano luoghi ed esperienze che possano incrociare la “ricerca” spirituale individuale che si presenta molto variegata. Così tende a venir meno quel ‘legame affettivo’ che sosteneva il ministero presbiterale con la sua gente. E il parroco di un tempo si avverte più solo e disorientato. Un rimedio lo si è trovato nel tenere più vive alcune relazioni, quelle con gli ‘operatori pastorali’, cercando di ‘formare i formatori’. Ma nello stesso tempo non è venuto meno il rapporto del prete con altri fedeli che però conosce poco: soprattutto in occasione dei sacramenti dei figli e dei funerali.

  1. Parrocchie aperte ad altre parrocchie nell’unità pastorale

La riflessione sulla necessità di aprire le parrocchie a forme stabili di condivisione con altre parrocchie ha in Vicenza una storia pluridecennale. Già a fine del secolo scorso si avvertiva la necessità di questa riforma. Una prospettiva che ha conosciuto anche uno sviluppo di riflessione a livello nazionale nella nota pastorale della Conferenza episcopale italiana Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, del 30 maggio 2004. Possiamo qui richiamare due numeri dell’introduzione:

6) Le parrocchie non possono agire da sole: ci vuole una “pastorale integrata” in cui, nell’unità della diocesi, abbandonando ogni pretesa di autosufficienza, le parrocchie si collegano tra loro, con forme diverse a seconda delle situazioni – dalle unità pastorali alle vicarie o zone –, valorizzando la vita consacrata e i nuovi movimenti.

7)  Una parrocchia missionaria ha bisogno di “nuovi” protagonisti: una comunità che si sente tutta responsabile del Vangelo, preti più pronti alla collaborazione nell’unico presbiterio e più attenti a promuovere carismi e ministeri, sostenendo la formazione dei laici, con le loro associazioni, anche per la pastorale d’ambiente, e creando spazi di reale partecipazione.

Anche se a Vicenza si è sviluppata una pratica secondo la quale le unità pastorali sono state progressivamente costituite a partire dalla disponibilità dei presbiteri – anche per il fatto che si riteneva il ministero del parroco decisivo per attivare tali collaborazioni – è un dato storico che sono maturate progressivamente delle pratiche di condivisioni pastorali nelle parrocchie in ambito formativo come l’iniziazione cristiana e caritativo. Non sono e non mancano resistenze, ma il lavoro compiuto è stato enorme e non deve essere disperso. Probabilmente questo lavoro è stato favorito dal fatto che vi era un unico riferimento pastorale (un unico parroco con vicario parrocchiale e collaboratori pastorali, o due presbiteri cui è affidata in solido la cura pastorale).

Sarebbe interessante comprendere, da parte dei preti che un tempo erano parroci di un’unica parrocchia e poi hanno assunto la cura pastorale in più parrocchie, che cosa è cambiato del loro ministero e che cosa intuiscono debba cambiare.

 3. La nomina ‘ad tempus’ dei parroci e dei presbiteri che hanno in solido la cura pastorale

A Vicenza è stata introdotta la prassi della nomina dei parroci “ad tempus” determinata in Italia in 9 anni. Questa prassi pone il presbitero “in cura d’anime” nella condizione di doversi pensare con una disponibilità a cambiare parrocchie al termine del novennio. Da un lato c’è un tempo congruo che permette di camminare insieme al popolo di Dio delle parrocchie affidate, dall’altro permette di mantenere una certa libertà da eccessivi attaccamenti a persone e a progetti. Cambi troppo repentini non aiutano le comunità a vivere un cammino. Al contrario, presenze troppo prolungate nel tempo, tendono ad appesantire il vissuto di una comunità con la tentazione che giunti alla rinuncia non si accetti di “lasciare libero il campo” per “passare il testimone” ad altri operai.

  1. L’assunzione ‘in solido’ della cura pastorale di una o più parrocchie

Si è diffusa negli ultimi anni, una nuova formula di assunzione della cura pastorale: quella che per ragioni di comprensione è stata individuata come “parroci in solido”. In realtà non è propriamente la figura del “parroco”. L’assunzione “in solido” della cura pastorale ha permesso di attivare un servizio pastorale che, almeno in astratto, dovrebbe essere condotto alla pari tra presbiteri. Anche se vi è la figura del “moderatore” che è investito della legale rappresentanza, in realtà questa figura richiede una buona dose di condivisione nella quale si è sempre alla pari. Non c’è uno che ha una responsabilità più grande di un altro: i presbiteri hanno in solido la responsabilità della cura pastorale.

Non sempre questa formula è stata felice nella prassi, soprattutto per chi non è nominato “moderatore”. O meglio, per alcuni che non vogliono assumersi responsabilità dirette questa formula è servita a fare “da secondo” rispetto al moderatore; ma è un fraintendimento da non perseguire (è preferibile la figura del “vicario parrocchiale”). Ma un buon cammino è stato compiuto perché “costringe” a superare il modello “parroco unico della/e parrocchia/e” per attivare una cura pastorale costantemente condivisa nella progettualità e nelle scelte.

Anche in questo caso sarebbe molto interessante riprendere il vissuto di chi ha avuto questa esperienza o la sta facendo e comprendere come si è sentito presbitero; che cosa è cambiato del suo essere prete? Le fatiche che ha affrontato hanno permesso di vivere la cura pastorale in modo nuovo? Anche chi ha sperimentato la cura pastorale in solido con una duplice figura di moderatore (uno in alcune parrocchie e l’altro nelle restanti) che cosa ha potuto percepire del ministero?

 5. La ‘cooperazione missionaria tra le Chiese’

Dai racconti di vita presbiterale che ho ascoltato in questo primo anno e mezzo ho avuto l’impressione che un rinnovamento delle forme ministeriali sia stato frutto delle numerose esperienze dei preti diocesani “fidei donum”. Il contatto con altre realtà ecclesiali, spesso di nuova costituzione, con orizzonti pastorali molto differenti da quello veneto – come l’America Latina o l’Africa – ha permesso innovazioni audaci con un coinvolgimento delle ministerialità laicali. Si sono sperimentate forme di rinnovamento nelle quali si è cercato l’essenziale e – come accade spesso in chiese giovani – con lo sguardo in avanti verso uno sviluppo futuro della Chiesa.

Questa è una mia impressione. Ma non sarebbe fuori luogo che quanti hanno avuto esperienze missionarie “fidei donum” potessero aiutarci a comprendere come è cambiato il loro essere preti e come hanno affrontato il servizio pastorale una volta rientrati.

  1. I gruppi ministeriali e i ministeri laicali

I gruppi ministeriali sono una novità che ho avuto modo di conoscere giungendo a Vicenza. Introdotti alla luce del can. 517 par. 2 – laddove non è possibile assicurare il parroco vi sia o un diacono, o una persona consacrata, o un laico o un gruppo di persone alle quali viene attribuita dal vescovo “una partecipazione alla cura pastorale della parrocchia” – hanno fatto crescere in molti diaconi e laici la responsabilità di animare le comunità parrocchiali nei cinque ambiti promossi a livello diocesano (evangelizzazione, liturgia, carità, sociale-culturale) condividendo con il parroco o i preti che hanno in solido la cura pastorale, il discernimento sul cammino comunitario e l’operatività delle scelte da attuare. In alcuni contesti, soprattutto dove è mancato il rinnovo delle presenze, il gruppo ministeriale si è irrigidito o è diventato un centro di potere alternativo. Ma questo non significa che sia una esperienza negativa. Ritengo che con alcuni aggiustamenti la direzione sia quella giusta.

In realtà non si è trattato di una vera e propria applicazione del can. 517 par. 2 in quanto il parroco è nominato in tutte le parrocchie. Ma la presenza del gruppo ministeriale costringe i parroci ad un coinvolgimento di diaconi, consacrati e laici, nella “cura pastorale” della comunità che è più dell’offrire un servizio di catechista o di operatore della caritas. E se la direzione è quella di assicurare in ogni parrocchia un gruppo ministeriale che anima la comunità condividendo il cammino con gli altri gruppi ministeriali delle parrocchie dell’unità pastorale, il ministero del presbitero va ripensato.

Anche per questo punto sarebbe interessante raccogliere l’esperienza vissuta in questi anni da parte dei presbiteri che hanno avuto a che fare con i gruppi ministeriali: che cosa è cambiato dell’esercizio del ministero presbiterale?

  1. Le forme di vita comune tra presbiteri

In non poche realtà i presbiteri abitano insieme. Le esperienze sono molto differenti: momenti di preghiera quotidiana, condivisione dei pasti, programmazione pastorale settimanale… Da quanto ho potuto conoscere la scelta migliore è quella di essere almeno in tre per le dinamiche relazionali che si presentano. Poi vi sono preti che vivono in una abitazione da soli ma condividono il pranzo tutti i giorni o in alcuni giorni della settimana. Anche questo tipo di fraternità presbiterale si è rivelata positiva.

Quando si vive insieme, c’è un investimento affettivo relazionale nella vita comune. È una testimonianza forte verso i fedeli (vedono che i preti si vogliono bene aiutandosi reciprocamente). È un aiuto nel tempo delle difficoltà o delle crisi che prima o poi si presentano nel ministero. È un sostegno nel tempo della malattia o dell’anzianità. Il tempo dedicato alla vita fraterna presbiterale (in alcuni casi anche con i diaconi) non è tempo sottratto alla comunità.

Segnalo che la terza monografia del 2024 della rivista Presbyteri è dedicata al tema delle fraternità presbiterali.

Anche in questo caso ci si può chiedere come è cambiato il nostro ministero presbiterale con le forme di vita comune sia in relazione agli altri presbiteri sia in relazione alla cura pastorale da assicurare alle comunità parrocchiali.

† vescovo Giuliano