«Prese con sé»

Lettera del Vescovo Beniamino Pizziol alla diocesi di Vicenza in occasione del Santo Natale

Carissimi fratelli e sorelle,

desidero, ancora una volta, “entrare” nelle vostre case, per augurarvi un Santo Natale. Quest’anno, però, vorrei che l’ospite di riguardo, al quale poter riservare un’accoglienza particolare, fosse una persona schiva, che nelle festività natalizie di solito passa quasi del tutto inosservata.

Mi riferisco a Giuseppe, «lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16). Si tratta di una figura molto interessante perché, pur silenzioso, parla coi gesti, e, anche se non si mette mai in primo piano, assolve a un compito di primaria importanza. Mi vengono subito in mente tante persone, apparentemente “secondarie”, che hanno svolto nella nostra vita un ruolo in realtà essenziale: nonni, insegnanti, catechiste, educatori, vicini di casa, amici, colleghi che non hanno mai occupato i primi posti nella nostra attenzione, ma dai quali abbiamo ricevuto tanto.

Abbiamo concluso da poco l’anno che Papa Francesco ha voluto dedicare a Giuseppe, una «straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi»[1]. Allora, mi permetto di condividere con voi alcune suggestioni che sono sorte in me leggendo le pagine del vangelo dell’infanzia di Matteo, che pur non essendo una cronaca particolareggiata delle vicende della Santa Famiglia, ci permette comunque di entrare nella trama tribolata in cui Gesù è venuto al mondo.

Il gesto che a più riprese viene riconosciuto a Giuseppe è quello di «prendere con sé». Egli lo ripete con una fedeltà e una fiducia che incantano. Questa azione rivela la piena disponibilità di Giuseppe ad accogliere la prospettiva divina comunicatagli dall’angelo: egli è disponibile a non assolutizzare i propri progetti, obbedendo a uno sguardo più ampio del suo. Però, in questo «prendere con sé» possiamo intuire anche una sua costante personale: la dedizione verso la propria famiglia. Questo atteggiamento potrebbe illuminare la solennità di questo Natale. Lasciamoci, dunque, accompagnare dalle scelte di questo umile uomo, sposo e padre.

1) Il rischio del fidarsi

Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» […]. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù (1,20-21.24-25).

Quando Giuseppe viene a sapere che, senza alcun suo intervento, Maria è incinta, decide di non citarla pubblicamente in giudizio. Davanti ad un evento del tutto imprevisto egli non reagisce d’impulso, non si adira con Maria ed evita la soluzione energica e – apparentemente – risolutiva, prevista in questi casi: il ripudio. Egli, attingendo al suo affetto sincero per la sua promessa sposa, preferisce rinviarla alla famiglia di origine. E questo è già un modo delicatissimo e rispettoso di relazionarsi a lei.

Mentre, però, è arrovellato dai dubbi e pensa di separarsi da Maria, l’angelo gli rivela la vera origine di questa gravidanza inattesa e gli propone una soluzione alternativa: portare a compimento il matrimonio, iniziare la vita familiare con la sua sposa e accogliere questo bimbo che, in realtà, è il Figlio di Dio. Giuseppe, così, segue un sogno e presta attenzione al flebile suggerimento di un angelo: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (v. 20).

In questo modo Giuseppe si apre ad una fiducia inaudita. Gli viene consigliato di non scrollarsi di dosso il problema, ma di assumerlo: di «prenderlo con sé». Questo implica la capacità di vedere la persona prima della problematica, di mettersi in ascolto della situazione prima di calcolare i rischi e le complicazioni che ne possono derivare. Giuseppe, senza obiettare alcunché, corre il meraviglioso rischio di fidarsi, e, così facendo, riceve il dono di essere coinvolto in un’avventura che è originata dallo Spirito, essendo iniziativa di Dio.

Questa capacità di coltivare la fiducia, non aggirando la difficoltà ma facendosene carico, costituisce un’alternativa attualissima al disimpegno, al disinteresse, all’indifferenza che troppo spesso intorpidiscono la coscienza contemporanea. Il modo con cui Giuseppe si accosta al concepimento del bambino Gesù ci aiuta a contestare la cosiddetta odierna “Io-crazia”[2], ossia il dispotismo dell’ego, in forza del quale ciascuno pensa per sé. L’antidoto da assumere – ci insegna questo umile sposo – è la solidarietà, che ci apre all’altro, facendoci carico della sua situazione.

Ma c’è di più. Giuseppe con questa scelta inaugura una sorta di processo di guarigione che, purtroppo, oggi non è ancora pienamente in atto. Al cuore di molti maschi, ammorbato da sempre di violenza e presunta superiorità nei confronti delle donne, l’umile carpentiere di Nazaret contrappone alcune scelte innovative, oserei dire rivoluzionarie, perché totalmente libere dal maschilismo (di allora e di oggi). Non “getta via” la donna come un problema da eliminare, ma se ne fa carico, la «prende con sé». Egli agisce da “vero uomo”, che esprime la propria mascolinità non nel dominio ma nella dedizione.

Credo che la solennità del Natale costituisca un’occasione particolarmente propizia a tale riguardo. Infatti, il clima natalizio auspica l’incontro, favorisce un contesto più fiducioso, ci fa incontrare (o contattare per gli auguri) persone che non si vedevano (o non si sentivano) da tempo; ci permette, poi, di coltivare atteggiamenti benevoli, palesemente contrari ad ogni forma di abbandono, sopraffazione e violenza. Questo giovane sposo di Maria, senza proferire parola, ci insegna ad osare: a fidarsi anche nelle condizioni più improbabili e a non temere di accogliere le vicende complicate e di farsene carico.

La ricompensa che Giuseppe riceve è duplice: da una parte ha la gioia di celebrare le nozze con la ragazza di cui era innamorato, e, dall’altra, diventa padre di Gesù, il Figlio di Dio, dal momento che con l’atto giuridico del conferimento del nome, si assume in toto la paternità di questo bimbo.

2) L’amarezza dell’esilio

Essi (I Magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode (2,13-15).

Il prendersi cura talora implica dei rischi, domanda di farci carico di situazioni difficili, pericolose. Giuseppe, infatti, deve mettere in salvo la sua famiglia e intraprendere la via della fuga. Il re Erode si sente minacciato da un bambino che i Magi, messi in moto dal sorgere della stella, cercano come «il re dei Giudei» (cf. 2,2). Anche Erode, come i saggi venuti da Oriente, desidera individuarlo, ma la sua intenzione è un’altra: egli «vuole cercare il bambino per ucciderlo» (2,13). Così, del tutto improvvisamente, Giuseppe deve mettere in salvo la propria famiglia assumendo il triste ruolo del fuggiasco che, in piena notte, è costretto a lasciare tutto per non esporre il bambino al rischio di esser ucciso. In un modo del tutto inaudito, egli si trova a svolgere il compito del «salvatore del Salvatore»[3]. Possiamo solo immaginare da una parte l’angoscia provata e, dall’altra, il disagio di recarsi in un paese straniero, dove il popolo di Israele ha sopportato la dura condizione della schiavitù.

Ebbene, ancora una volta, la cura che Giuseppe riserva per Maria e Gesù diventa un «prendere con sé il bambino e sua madre» per fuggire. Egli ha dovuto compiere la scelta amarissima di rendere la propria famiglia migrante dalla terra di Israele ed extracomunitaria in terra di Egitto. Non gli è rimasta che la via della fuga e dell’esilio.

Sfortunatamente è una storia che si ripete. Infatti, «mentre fissiamo lo sguardo sulla Santa Famiglia di Nazareth nel momento in cui è costretta a farsi profuga, pensiamo al dramma di quei migranti e rifugiati che sono vittime del rifiuto e dello sfruttamento, che sono vittime della tratta delle persone e del lavoro schiavo […]. Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di famiglie possono riconoscersi in questa triste realtà»[4]. Pensiamo ad esempio, in queste ultime settimane, alle migliaia di richiedenti asilo bloccati al confine fra Bielorussia e Polonia, costretti in condizioni disumane e vergognosamente usati per fini politici. «La Santa Famiglia solidarizza così con tutte le famiglie del mondo obbligate all’esilio, solidarizza con tutti coloro che sono costretti ad abbandonare la propria terra a causa della repressione, della violenza, della guerra»[5].

Al tempo stesso, però, non possiamo non riconoscere che tante persone si sono fatte carico delle condizioni di disagio dei migranti e che, invece, del rifiuto o del disinteresse hanno offerto aiuto, protezione e salvezza. Anche in alcune parrocchie e istituzioni della nostra Diocesi. Persone che non verranno mai alla ribalta delle cronache, ma che sono riuscite a «prendere con sé» la precarietà della condizione di altri, precisamente come Giuseppe.

3) Un cammino arduo ma propizio

Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno» (2,19-23).

Venuta meno la minaccia di Erode, Giuseppe riceve l’indicazione di tornare in patria, ripiegando però sull’umile villaggio di Nazaret. Questo viaggio di ritorno ricorda un altro grande viaggio: quello dell’esodo. La Santa Famiglia deve ripercorre in qualche modo le tappe di quel viaggio che ha portato il popolo di Israele dalla condizione di schiavitù in Egitto a quella di nazione libera nella Terra promessa.

Non posso non andare immediatamente col cuore e con la mente ai tanti cammini personali e comunitari cui siamo sollecitati e, per certi versi, costretti. Penso a livello globale allo sforzo planetario di uscire dalla pandemia, e a tutti coloro che hanno sofferto e soffrono tuttora a causa dell’emergenza sanitaria. Penso al grave problema dell’inquinamento globale. Penso ancora all’insensata corsa alle armi. Penso, altresì, a tutte le famiglie che in questo periodo hanno dovuto patire difficoltà economiche a causa della perdita di lavoro, molte delle quali si trovano drammaticamente sull’orlo della povertà e cercano un minimo di sicurezza economica. Penso, anche, al prezzo altissimo in termini di salute psicologica che tanti nostri ragazzi e giovani hanno dovuto pagare nel loro tormentato cammino di crescita e di maturazione. Anche le nostre comunità stanno cercando con qualche fatica ma anche con tanta generosità e fantasia di riprendere e continuare il cammino. In fondo, la vita del singolo e quella della Chiesa si configurano come un “esodo continuo”.

Giuseppe, che ancora una volta «prende con sé il bambino e sua madre», dimostra la sua fedeltà e determinazione: l’aver «preso con sé» si è concretizzato come un ripetuto «esodo da sé». Infatti, per farsi carico delle necessità altrui, è necessario maturare una grande libertà dalle proprie aspettative e pretese. Significa avere più a cuore le sorti altrui, che le proprie: questi in fondo sono gli atteggiamenti che ogni papà e mamma coltivano verso i propri figli e che un pastore nutre verso la persone che gli sono affidate. In questa disponibilità costante, l’umile carpentiere di Nazaret si è rivelato «in maniera esemplare insuperabile custode, assistente e maestro. È stato, quindi, in tale sua completa, sommessa dedizione, di una grandezza sovrumana che incanta»[6].

Fra i tanti altri itinerari lieti (o tribolati) del nostro tempo, ve n’è uno che richiama profondamente la nostra attenzione in questo particolare momento ecclesiale. Si tratta del cammino sinodale dell’intera Chiesa Cattolica. È l’occasione propizia per ritrovare il desiderio e la gioia del camminare assieme (synodós significa, per l’appunto, «strada condivisa», «cammino fatto insieme»). Stiamo muovendo i primi passi, sia come Chiesa italiana, sia come Chiesa vicentina, dedicando questo primo periodo soprattutto all’ascolto: tutti possono offrire la narrazione del proprio vissuto personale o comunitario e tutti siamo chiamati ad ascoltare, dentro e fuori i circuiti delle nostre parrocchie e attività ecclesiali, anche i vissuti di chi non la pensa come noi. Il percorso potrebbe presentarsi arduo, incerto, perché non siamo abituati a metterci in gioco e costruire insieme il tessuto umano delle nostre comunità (preferiamo delegare agli “addetti ai lavori”), ma sarà sicuramente propizio, perché è venuto il momento di intraprendere tutti insieme con coraggio questo “esodo” della Chiesa, evitando l’atteggiamento rassegnato del disinteresse e assumendo come stile condiviso il «prendere con sé» di Giuseppe.

Conclusione: un augurio e una preghiera

La tradizione ci consegna la figura di Giuseppe come patrono della Chiesa – lo sappiamo bene –. Infatti «tutti possono trovare in [lui], l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe [poi] ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza»[7]. Da lui possiamo realmente imparare questo originalissimo e paradossale “protagonismo in seconda linea”.

Sarei lieto se la nostra Chiesa e tutti noi ­– parrocchie, unità pastorali, comunità religiose, gruppi e associazioni ecclesiali e singoli fedeli – fossimo capaci di «prendere con noi il bambino e sua madre», secondo una duplice sfumatura. La prima potrebbe essere quella squisitamente interiore, in un rinnovato slancio di una spiritualità in cui Gesù e la Madre sua siano “di casa”. Nell’intimo della preghiera personale ciascuno può realmente accogliere la loro presenza come un dono e una compagnia preziosa da custodire. Nel Vangelo di Giovanni si dice che dalla croce Gesù morente consegnò al discepolo amato la propria madre e lui «l’accolse con sé» (19,27: «la prese fra le sue cose proprie» recita la traduzione letterale). La seconda, poi, potrebbe consistere nel farsi carico, ciascuno secondo le proprie possibilità, delle situazioni di bisogno di cui viene a conoscenza, come il sentirsi parte di un tutto di cui interessarsi e prendersi cura. Lo stile umile ma coraggioso di questo uomo, padre e sposo, ci aiuti a vivere con intensità questo Natale e ad accorgerci che c’è un mondo che attende la nostra tenerezza e la nostra dedizione.

Questa è la mia preghiera per ciascuno di voi; questo anche il mio augurio affettuoso, paterno e fraterno.

 

† Beniamino Pizziol
Vescovo di Vicenza

 

 

COMMENTO ALL’ICONA DELLA SANTA FAMIGLIA

 Tema dell’icona, nata dalla preghiera e dallo scambio spirituale di alcuni presbiteri e suore, sono le relazioni d’amore all’interno della Santa Famiglia, riflesso e immagine della comunione trinitaria.

 La scena
Tutto è immerso nell’oro, e l’oro rappresenta la luce di Dio. I genitori accolgono i gesti di tenerezza che il figlio ha verso di loro. Essi lo indicano: è lui il Salvatore.
I tre sono seduti su un trono che rappresenta il talamo nuziale perché questo matrimonio tra la Vergine e S. Giuseppe è un vero matrimonio anche se è verginale: i due si amano veramente e si rispettano al massimo, nel fiore della loro giovinezza. Sanno di essere oggetto dell’amore di Dio, in cui il loro amore è immerso.
I due sono seduti in un unico sedile, segno di unità; sono insieme, unico è il loro ideale, ciascuno attento al desiderio dell’Altro.

Maria
È splendente di ori. È la “basilissa”, la madre dell’imperatore. Per questo ha le scarpe rosse, simbolo della dignità imperiale.
Il suo manto di porpora è rilucente di ricami che hanno lo stesso oro che indica la grazia di Dio Padre.
La veste verde-azzurra indica che lei è una creatura, simbolo dell’umanità nella sua tensione spirituale. Maria ha vissuto appieno la sua vita umana e non ignora nulla della nostra vita quotidiana: in casa ha acceso il fuoco tutte le mattine.
Maria ha tre stelle: due sulle spalle (una è nascosta) e una sulla fronte: sono il simbolo della verginità (“Ante, in e post partum” secondo la definizione del Concilio Lateranense del 649).
La sua umanità è stata avvolta dalla potenza di Dio: Dio l’ha toccata. Infatti il suo nimbo (aureola) tocca la mandorla azzurra segno della luce di Dio che l’uomo non può percepire.
Dolce e un po’ sorridente è lo sguardo di Maria che sorregge il Figlio e lo indica. Lo tiene in braccio, lo coccola, è suo Figlio ma è Dio!

   

Il Figlio
La veste è bianca perché bianco è il colore riservato alla divinità; bianca è la veste del Padre, e bianca è la colomba, lo Spirito Santo.
Ha sulla spalla la stola d’oro perché è sacerdote.
Il manto è intessuto d’oro perché è anche re della gloria e così è vestito nel giudizio.
Ha in mano il rotolo, la Parola ed egli è la Parola eterna del Padre.
Regge con forza il rotolo. Il suo viso si slancia con tenerezza a ricevere il bacio della madre e i suoi occhi guardano a lei, la creatura, ma la sua mano è tutta affidata a Giuseppe che l’accoglie con reverenza nella sua e con l’altra mano lo indica.
Il nimbo è crociato e la scritta dice: “Sono colui che è”.

 

Giuseppe
È scalzo perché si è spogliato di se stesso.
Ha una veste di lapislazzuli azzurri: è il colore dell’uomo trasfigurato.
Il manto che lo ricopre è color terra e indica questa rinuncia, ma ha caldi riflessi gialli che ricordano l’oro. Egli è riflesso della potenza di Dio. È l’intercessore per eccellenza.
Giuseppe è giovane e non ha paura di stare accanto alla donna che ama perché è puro. Giuseppe è giovane e ardente. Che cos’è un cuore puro? È un cuore ardente. E cos’è un cuore ardente? È un cuore compassionevole. E Giuseppe è compassionevole e nella dolcezza del suo sguardo c’è tutto l’amore umano per Maria e il Figlio e tutta la venerazione di chi contempla un mistero grande.

 

La mandorla
Nella luce blu dei lapislazzuli e nell’oro dell’universo di Dio, appare l’Eterno Padre e il suo sguardo è colmo d’amore per l’umanità: siamo oggetto di un amore folle di Dio.
Tre sono le gradazioni del blu a indicare che Dio è nel nucleo dell’universo e irradia una luce accecante. Lo Spirito Santo è il tramite.
La Santa Trinità è presente nella parte centrale della composizione perché ogni nostra relazione è immagine della relazione d’amore dei Tre.

 

 

[1] Lettera apostolica Patris corde, in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della Chiesa universale.

[2] M. Recalcati, Non avere paura della vita: un nome della Fratellanza, Settimananews, 14.10.2021

[3] K. Stock, Giuseppe, padre di Gesù secondo la legge, Parola Spirito e Vita 39, 1999, 94-95.

[4] Papa Francesco, Angelus della Festa della Santa Famiglia di Nazareth, 29 dicembre 2013.

[5] Papa Francesco, Angelus della Festa della Santa Famiglia di Nazareth, 29 dicembre 2019.

[6] Paolo VI, Pensieri di Paolo VI per ogni giorno dell’anno, a cura di U. Gamba, IPAG Rovigo 1976, 452-453.

[7] Papa Francesco, Lettera apostolica Patris corde, Introduzione.