Ritiro spirituale di quaresima proposto da sr Chiara Curzel al clero vicentino

Basilica di Monte Berico, 3 marzo 2022

Santuario Santa Maria di Monte Berico, 3 marzo 2022

Ritiro d’inizio Quaresima per preti, diaconi e religiosi
Diocesi di VICENZA

«Non avere timore del deserto».
Riflessioni per una Chiesa in cammino.

Dal primo libro dei Re
«Siamo il tuo popolo e la tua eredità, Signore. Ci hai fatti uscire dall’Egitto, da una fornace per fondere il ferro. Siano attenti i tuoi occhi alla preghiera del tuo servo e del tuo popolo Israele e ascoltali in quanto ti chiedono, perché tu li hai separati da tutti i popoli del paese come tua proprietà» (1 Re 8,51-53a).

Queste parole tratte dal capitolo 8 del Primo libro dei Re hanno segnato l’inizio di questa nostra giornata, perché sono la lettura breve delle lodi di questa mattina. E nell’Ufficio delle Letture abbiamo iniziato oggi il Libro dell’Esodo, mettendoci già nell’idea del viaggio che la liturgia e la vita ci faranno fare in questo tempo quaresimale, accompagnati simbolicamente, lo sappiamo, dalle tappe del popolo nel deserto, fatte di tentazioni e consolazioni, prove e mormorazioni, miraggi e oasi, peccato e perdono.

Guardando al momento che stiamo vivendo e al cammino che ci attende, nel tempo liturgico ed ecclesiale ma anche nel tempo storico e sociale in cui ci troviamo, mi è venuta in mente l’efficace espressione adoperata da Stefano nel capitolo 7 degli Atti degli Apostoli. Il diacono Stefano sta facendo il suo lungo discorso di fronte al sommo sacerdote, riassumendo la storia di Abramo, di Giuseppe e soprattutto di Mosè e del popolo pellegrino nel deserto. Al versetto 38, parlando appunto di Mosè, dice: «Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l’angelo, che gli parlava sul monte Sinai, e i nostri padri…». Mentre erano radunati nel deserto… o per dirla alla greca ejn th/= ejkklhsiva/ ejn th/= ejrhvmw/, “nella Chiesa nel deserto”. Credo che non facciamo fatica a sentirci tali, oggi: consapevoli di essere “Chiesa”, il tuo popolo e la tua eredità abbiamo detto all’inizio, parte di una comunità radunata dalla Trinità stessa e che vede in sé la fragilità umana e la potenza divina, aggrappati alla fede e alla certezza di avere ancora molto da dare e da dire a questo oggi tormentato eppure visitato da Dio, ma anche “nel deserto”, disorientati e un po’ “fusi” dopo la fornace per fondere il ferro, ancora secondo le parole della lettura breve, nella quale ci sembra di essere passati, e sperimentiamo nello stesso tempo solitudine, confusione e impotenza, tenacia e perseveranza, tentazione e prova, resistenza e donazione, peccato e perdono, ma forse soprattutto fatica, tanta fatica nel camminare nel deserto, nel camminare insieme nel deserto, nel lasciarci guidare nel deserto, nel comprendere dove Dio ci conduce attraverso il deserto.

Su questa chiesa del deserto vorrei gettare uno sguardo con voi oggi, facendomi suggerire qualche spunto dai grandi Padri che ci hanno preceduto e generato nella fede, che sono Padri “della chiesa” appunto, perché sono patrimonio comune dei credenti in Cristo e perché hanno saputo credere, pensare, camminare all’interno della chiesa stessa, costruendola dall’interno, soffrendo e gioendo con essa, cercando la comunione in essa, comunicando un modo di leggere la Scrittura che nonostante le sue asprezze può ancora essere molto generativo per la spiritualità di oggi.

Ci accompagni il ritornello che abbiamo ascoltato nella preghiera iniziale, tratto dal Libro dei Salmi: Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre. Nella fede sappiamo e crediamo che questa guida non è mai venuta meno e non abbandona ora la Chiesa, come non abbandona ciascuno di noi, che apparteniamo a questo popolo e facciamo la nostra parte per contribuire a questa traversata sostenendoci nel cammino.
Mi colpisce prima di tutto il modo con cui si apre il Libro dell’Esodo: «Questi sono i nomi dei figli di Israele entrati in Egitto». Ma ancora più interessante è l’esordio dell’altro grande libro che ci narra gli avvenimenti del deserto, quello credo meno frequentato, e cioè il Libro dei Numeri: «Il Signore parlò a Mosè, nel deserto del Sinai, nella tenda del convegno, il primo giorno del secondo mese, il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto, e disse: “Fate il computo di tutta la comunità degli Israeliti, secondo le loro famiglie, secondo i loro casati paterni, contando i nomi di tutti i maschi, testa per testa». Il libro dell’Esodo si apre con un elenco preciso di nomi; il libro dei Numeri con l’imperativo di Dio di contarsi, di mettere ordine nell’accampamento secondo le famiglie, le tribù, i
casati, sapendo che ci sarà un uomo a capo di ogni casato e un luogo ben preciso per le tende di quel casato. La “chiesa nel deserto”, che già da un po’ cammina nel deserto, sembra aver bisogno allora prima di tutto di conoscersi bene, di “contarsi” e di ordinarsi, di non vivere nella confusione. Noi abbiamo un rapporto un po’ conflittuale con i numeri… Ci è sempre stato insegnato (e giustamente, certo), che non sono i numeri che contano: la prima domanda da fare dopo un incontro non può essere “quanta gente c’era”, non è giusto fare la pastorale basandoci sull’attirare maggior persone possibile; se poi ci mettiamo a contare i numeri della crisi vocazionale… non c’è nulla di più scoraggiante e addirittura siamo accusati di metter limiti alla provvidenza e alla forza della chiamata di Dio e di essere nostalgici di una chiesa di maggioranza che non c’è più. Tutto vero, e ben fondato, sappiamo quanto Davide abbia pagato caro il proposito di censire il suo popolo… Eppure… se, come dicono i Padri, l’interesse della Scrittura non può essere quello di farci sapere che i censiti della tribù di Ruben
sono quarantaseimilacinquecento e quelli di Simeone cinquantanovemilatrecento, e via dicendo, ma quella di “condurci alla salvezza”, allora forse possiamo anche da questi aridi numeri, da questo modo di fare di Dio, trarre qualcosa di utile per noi.

Nella Omelia 1 sui Numeri di Origene di Alessandria, dal quale oggi ci faremo ampiamente aiutare, troviamo prima di tutto un dato teologico di base che sicuramente può fare da fondamento sicuro ad ogni nostro pensiero e ogni nostra preghiera: è Dio il primo che “conta”. Conta la moltitudine delle stelle e chiama ciascuna per nome (Sal 146 [147],4), vuole attorno a sé i Dodici (Mt 10,1) ma soprattutto ci dice che anche i capelli del nostro capo sono contati (Mt 10,30). Dio conosce cioè con precisione le sue creature, ciascuno di noi e anche ciascuna virtù e ciascun pensiero, che, dice Origene, sgorga come i capelli dalla nostra testa. Ben saldi su questa certezza nella provvidenza divina che ci scruta e ci conosce fino nei nostri abissi, possiamo allora guardare senza paura anche alla nostra storia di oggi, alla situazione personale in cui ci troviamo e alla configurazione storica della nostra “Chiesa nel deserto”, come la conosciamo e la viviamo in questo momento. Perché in quanto realtà umana e
storica, in quanto bisognosi di una progettualità intelligente e di obbedienza alla realtà, proprio perché consapevoli di essere popolo di Dio nei pericoli del deserto, è forse proprio questo un momento favorevole, «nel secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto» (e anche noi siamo al completamento di un “secondo anno” davvero importante e pesante, mi pare), “fare un po’ il punto”, osservarci, finirla di “contare” quanta gente non è tornata a messa, per conoscere meglio su chi e su cosa possiamo “contare”, anche umanamente, nella tappa di deserto che stiamo vivendo ora.

Conosciamo la nostra chiesa particolare? Anche troppo, forse ci verrebbe da dire… Ma a parte gli scherzi, forse possiamo imparare a guardare con sguardo più ampio e nello stesso tempo più attento alla nostra Chiesa. Chi siamo, come siamo collocati nelle responsabilità e negli incarichi, non per l’ansia di coprire tutti gli spazi o uno spazio più largo possibile, ma con la preoccupazione se abbiamo lasciato qualcuno troppo solo o con troppe responsabilità, o magari in un posto che non è il suo; dove c’è bisogno di rinforzo e dove non ha più senso presidiare; se c’è qualcuno per cui preoccuparsi o qualcuno con cui congratularsi, dove abbiamo la possibilità di lasciare ad altri (e ad altre, ma questa è un’altra storia) degli incarichi e dei compiti; dove il nuovo ci chiede novità anche nell’abitare una situazione che già conosciamo; dove la fatica sta avendo il sopravvento e possiamo darci il cambio, o semplicemente passare a responsabilità più collegiali, a creare occasioni per condividere i pesi e
per ripartire insieme. Siamo chiesa che cammina insieme, certo, quindi sinodale, ma credo che la percezione di molti sia quella che si tratta di un cammino “nel deserto”, e per questo è importante conoscere anche chi ci sta guidando, quali sono “i forti che hanno il dovere di sopportare l’infermità dei deboli” (cf. Rm 15,1) in questo momento, aiutarli a farlo, sapere a chi possiamo riferirci e per che cosa per le nostre difficoltà. E, se necessario, imparare da Ietro, suocero di Mosè, che vedendolo sfinito nel giudicare le questioni del popolo dalla mattina alla sera gli ha detto: «non va bene quello che fai! Finirai per soccombere, tu e il tuo popolo che è con te, perché il compito è troppo pesante per te… Sceglierai tra tutto il popolo uomini validi etc etc» (Es 18,17-18.21), perché nessuno, pur nelle responsabilità che spesso deve portare da solo, sia però lasciato solo mentre le porta.
Questo è dunque un primo sguardo che potrebbe animare la nostra preghiera oggi, quello dall’interno, sulla “mappa” della nostra chiesa nel deserto. Davanti al Signore, nel pensiero e nella preghiera, possiamo mettere il nostro presbiterio, nei suoi diversi incarichi, autorità e autorevolezze, quelli che stanno facendo più fatica e quelli che forse stiamo lasciando troppo soli, ma anche quelli che si stanno prendendo la responsabilità di “tirare”, di stare nelle prime file e che cogliamo come nostro punto di riferimento e di sostegno. Chiediamo a Dio di saperci “contare”, non per sciocca curiosità, ma perché possiamo conoscerci, stimarci, soprattutto aiutarci. Se non si sta insieme, nel deserto, non si sopravvive.

Dopo aver dunque “contato” a uno a uno, dall’interno della spianata desertica, il popolo di Dio radunato, vorremmo ora alzarci un po’ nel punto panoramico, guardarlo dall’alto, direi con uno sguardo più ampio e  contemplativo, e per farlo ci facciamo aiutare da un altro passo del Libro dei Numeri, quello che ci racconta le visioni e le benedizioni di Balaam. Si tratta di un episodio che non troviamo nel Libro dell’Esodo, è ricordato altre volte all’interno della Scrittura ma non in maniera molto frequente e dettagliata; un episodio che mescola elementi oscuri di divinazione e magia ad altri più popolari come l’episodio dell’asina parlante, ma che soprattutto ci permette di guardare in maniera simbolica e per questo evocativa e motivante la nostra situazione.
Ci fermeremo sui primi versetti del capitolo 24 dei Numeri, dopo che già alcune volte Balaam, invitato da Balak re di Moab a maledire il popolo di Israele, pronuncia forzato da Dio le sue ultime benedizioni. Innanzitutto ancora una volta siamo posti sulla roccia salda della fede nella benevolenza di Dio, perché al versetto 1 ci viene detto che «Balaam vide che al Signore piaceva benedire Israele».

Balaam ha provato a sacrificare agli idoli, ma gli è apparso solo il Signore e gli ha posto sempre sulle labbra parole di benedizione. Prima dunque di ogni sguardo, realista o utopista che sia, prima di ogni profezia sul futuro o consolazione per un presente difficile, più forte di ogni maledizione che possiamo sentire sulla Chiesa o sulla società in questo momento difficile, non possiamo uscire da questa convinzione nella bontà dell’azione di Dio sul suo popolo. Lo abbiamo sentito ripercorrendo le tappe con il Salmo iniziale, quel “perché il suo amore è per sempre” segna ogni momento della storia del popolo. È la benedizione la cifra sotto la quale si muove sempre la storia; a Dio “piace” benedire Israele, non permette che su di lui ci siano altre parole e che si muova sotto altre forze che non siano la sua benedizione. Il popolo può scegliere altre strade, desiderare addirittura di uscire da
questo sguardo provvidente e benevolo, ma sempre sarà su di lui questa compiacenza di Dio. Si tratta di quella dinamica della vita spirituale, dice Gregorio di Nissa, che ci fa camminare, progredire, solo se siamo fermi, cioè saldi sulla roccia che è Cristo (cf. Gregorio di Nissa, La Vita di Mosè 2,244).

Solo se siamo certi della sua benedizione possiamo, come ci ripete il Papa nel suo messaggio per questa Quaresima, “non stancarci” di pregare, di estirpare il male, di fare il bene. Il bene che noi possiamo fare e dire è reso possibile solo dal fatto che prima, sempre prima, Dio fa e dice il bene su di noi, e le altre potenze, per quanto forti, non possono prevalere, come è accaduto a Balaam.
Torniamo dunque al nostro indovino che «alzò gli occhi e vide Israele accampato». Cosà avrà visto Balaam? Un popolo nomade, tende rovinate da un viaggio che ormai dura da anni, animali che girano e sporcano, grida forse non sempre benevole… eppure ascoltiamo le sue parole: ««Oracolo di Balaam, figlio di Beor, e oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante; oracolo di chi ode le parole di Dio, di chi vede la visione dell’Onnipotente, cade e gli è tolto il velo dagli occhi. Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele! Si estendono come vallate, come giardini lungo un fiume, come àloe, che il Signore ha piantato, come cedri lungo le acque» (Nm 24,3-6).
Gli occhi di Balaam si aprono, il velo cade e il suo sguardo diventa uno sguardo contemplativo, che vede dal di dentro la realtà; la sua voce diventa benedizione e lode, diventa “canto per le chiese”, come dice in un bel passaggio Ignazio di Antiochia nell’esordio della Lettera ai Magnesii. E cosa vedono questi occhi che si aprono? A cosa si riferisce questa bellezza che, nonostante tutto, la chiesa del deserto, anche la nostra chiesa, continua ad avere? Potremmo dire che la bellezza dell’accampamento sta proprio nell’essere tale: non città fatta di case stabili e immobili, rigide e statiche, ma insieme di tende, che hanno nella loro flessibilità e mobilità la loro forza, capacità di resistere agli urti, di modificare i tracciati, di avere un loro equilibrio anche nell’instabilità degli eventi e soprattutto nella loro possibilità di progredire, di seguire, di non ritenersi arrivati ma di muoversi verso la meta. La bellezza di queste tende rovinate e “vissute” sta nel fatto che sono pronte a muoversi ancora, a seguire quella nube che le guida, a fidarsi del loro Dio. E allora ci mettiamo anche noi in cammino e seguiamo alcune piste, ancora suggerite da Origene, per vedere in che cosa potremmo, allora come oggi, vedere la bellezza di questo movimento. La prima immagine con cui sono interpretate le tende è quella della possibilità/capacità di applicarsi
e di avanzare nella conoscenza di Dio e in particolare nello studio, nella comprensione, nell’amore alla Scrittura. Perché lo sappiamo e lo sperimentiamo, quanto più ci appassioniamo a qualcosa, tanto più siamo spinti ad avanzare in quella direzione; quanto più amiamo tanto più desiderio abbiamo di amare; quanto più conosciamo tanto più vorremmo conoscere. La sapienza di Dio, e la comprensione delle Scritture, è senza fine ma nello stesso tempo non è frustrante, anzi è un continuo stimolo ad avanzare. Il paragone più bello che i Padri fanno è forse quello del pozzo (cf. Origene Omelie sui Numeri 12; Omelie sulla Genesi 13): quanto più si scava, ci si affatica per scendere in profondità, tanto più si riceve acqua fresca, si attinge alle profondità di Dio; quanto più si frequentano questi pozzi, tanto più si trova per sposa (come i patriarchi) la pazienza, la sapienza e le altre virtù dell’anima; quanto più ci si abbevera a questo pozzo, tanto più si scopre di avere in sé dei pozzi da liberare da ciò che è terra per poi lasciare che diventino fonti per irrigare anche gli altri che ci circondano. La Parola di Dio, ci dicono i Padri, dà gioia (cf. Origene, Omelie sui Numeri 11,8), è la vera manna che ci è data ogni giorno per il nostro cammino nel deserto e che ci consente di camminare (cf. Origene, Omelie sui Numeri 3,1). La Parola è sempre nuova, ci precede sempre, e per questo è traino per il cammino. Il suo cuore, dopo la venuta di Cristo, è il comandamento dell’amore e, come dice Origene nell’omelia 9,4 sui Numeri, «il comandamento dell’amore non invecchia e rende sempre nuovi nello spirito coloro che lo osservano e lo custodiscono».

Forse possiamo parlare di “chiese giovani” e di “chiese vecchie” se guardiamo alla data di fondazione, o forse all’età media dei praticanti… ma una “chiesa vecchia” in sé non può esistere, se è fedele alla Parola, se abita in una tenda, se è pronta a muoverne i paletti dove la Parola la conduce. Forse c’è ancora troppo poca Parola di Dio nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, e troppo pochi strumenti per comprenderla, per scavare quel pozzo con le “armi” giuste e lasciare che l’acqua emerga diventando fonte. A tutti i livelli, dalle scuole teologiche alle omelie feriali, il nostro amore per la Parola dovrebbe trascinare le nostre chiese, come l’acqua dell’oasi motiva e trascina nel deserto; come l’acqua degli otri mantiene vivi nell’aridità. Certo, la sua scorza può essere dura e amara come quella di una noce, dice Origene (Omelie sui Numeri 9,7), e molti ne vengono respinti, ma se si è in
grado di aprirla, per sé e per gli altri, è dolce e nutriente, un frutto che sazia e rallegra. L’abbiamo sperimentato tutti: quando ci troviamo di fronte a persone che sanno aprire la Scrittura e farla comprendere, ne rimaniamo affascinati, e la gente segue, si appassiona, vuole capire di più, si rammarica di aver sempre compreso per troppo tempo troppo poco, insomma… cammina, sposta la tenda, progredisce nella conoscenza e nella fede. Rimettere al centro l’annuncio della Parola diventa primario per le nostre comunità… ma per farlo abbiamo bisogno di molti “scavatori di pozzi”, che aiutino ad arrivare in profondità chi non ha molta forza, e direi anche dei bravi “schiaccianoci”, che sappiano mostrare che al di là della durezza e dell’amarezza di certi passaggi c’è una lettera d’amore che ci attende e ci trascina perché, per dirla con Origene, «per l’anima – quando in lei si è acceso un
piccolo fuoco di conoscenza – non è più possibile stare in ozio o in riposo, ma sempre è chiamata dalle cose buone alle migliori e di nuovo dalle migliori alle più alte» (Omelie sui Numeri 17,4).

Come siamo messi nelle nostre chiese nell’annuncio della Parola di Dio? Siamo assidui e contagiosi nello studiarla e nell’amarla? Quando è stato l’ultima volta che abbiamo letto o ascoltato qualche commento alla Scrittura non con il secondo fine di dover preparare un incontro? La nostra Chiesa del deserto ha lì il suo pozzo di ristoro, la sua oasi di attrazione, il suo “cuore” per ricompattarsi e rinvigorirsi, e ripartire…
La tenda nel deserto è anche il luogo dove Dio ha scelto di abitare e a Mosè è stato ordinato di costruire la tenda (il tabernaculum) secondo il modello celeste che aveva visto sul monte. La tenda è dunque anche segno del nostro impegno ecclesiale a costruire la dimora di Dio con gli uomini anche qui, in questa nostra esperienza di ora, a dare concretezza al pensiero di Dio sulla vita dell’uomo, a compiere passi concreti perché la Chiesa sia anche “ospedale da campo”, per dirla con papa Francesco, luogo in cui Dio abita con gli uomini e dove gli uomini possono incontrare Dio e la sua misericordia. E come i Leviti erano incaricati del servizio diretto alla tenda del Convegno e a portare sulle loro spalle l’arca dell’alleanza, così anche per i sacerdoti c’è un’appartenenza particolare che li lega alla “tenda di Dio con gli uomini” e plasma in base a questa la loro identità; c’è un compito
particolare di essere “custodi della Parola” e di portarla sulle spalle perché cammini con gli uomini nel deserto (cf. Origene, Omelie sui Numeri 10). Coloro che sono chiamati con questo carisma particolare sono dati in dono ai fratelli, appartenendo a Dio appartengono più strettamente al popolo, sono al suo servizio in questa loro chiamata di essere dispensatori della sua grazia. Come poterlo fare al meglio? Qui si potrebbe pensare alle celebri descrizioni dell’abbigliamento di Aronne e dei suoi figli, che vengono lette dai Padri come le virtù che il sacerdote è chiamato ad avere per poter essere lo strumento che avvicina Dio agli uomini e gli uomini a Dio (cf. Origene, Omelie sul Levitico 6). Ma per non allegorizzare troppo, mi limito ad indicare come sia necessario anche in questo caso che il “costruttore di tende” curi la sua competenza e la sua capacità nel tessere con pazienza e arte fili, reti, ricamare, cucire e ricucire perché davvero Dio possa abitare tra gli uomini e gli uomini possano
trovarsi bene nella sua casa, che è la Chiesa. L’ascesi relazionale, come dice Giovanni Crisostomo nel suo Dialogo sul Sacerdozio, è necessaria al pastore: non si tratta di saper dormire sul pavimento come l’ascesi monastica, ma saper mediare, essere lento all’ira, sopportare le chiacchiere e le offese, saper parlare il linguaggio di tutti, essere umile nel condurre a Dio e non a sé (cf. Giovanni Crisostomo, Dialogo sul Sacerdozio 3,9). Costui tesse la tenda dove abita Dio e dove gli uomini e Dio camminano assieme. Mi piace ricordare (sempre su suggerimento patristico) che come Pietro e Andrea sono stati chiamati a diventare da pescatori in mare a pescatori di uomini (con tutto quello che può significare), Paolo potrebbe essere stato chiamato a diventare da fabbricante di tende terrestri a costruttore di tende celesti, perché, dice Origene, «Paolo fabbrica tende quando diffonde il Vangelo
di Dio, costruendo le chiese» (Origene, Omelie sui Numeri 17,4). Anche a noi rimane il compito di “costruire le chiese”, o forse di “costruire la chiesa”, ogni giorno, perché sia luogo fraterno, mite, dove ci si possa trovare bene, dove si impara a dialogare, gestire i conflitti, dove le beatitudini diventano il progetto per tale costruzione.

Cosa stiamo costruendo in questo momento? Quali fili, magari delicati, stiamo ricucendo, quale ambiente stiamo creando all’interno delle nostre comunità? Qual è il posto che sentiamo essere dei presbiteri nella Chiesa? Tappabuchi per tutto o persone che sanno e possono scegliere, preparandosi anche umanamente al ruolo che hanno nella Chiesa? Non è che la stanchezza, la frustrazione, ci stanno facendo diventare persone peggiori? Come aiutarci per uscirne? «Anche ognuno di noi può progredire, con la sua tenda» ci ricorda ancora Origene. C’è dunque anche un progresso personale a cui siamo chiamati, di cui ciascuno è responsabile per poter poi contribuire al cammino comunitario, sinodale, mi verrebbe da dire. C’è un progresso nella fede, nella speranza,
nell’amore, che appartiene all’esperienza di ciascuno, che è quel protendersi paolino verso le cose che si hanno davanti, lasciando indietro quello che è ormai vissuto, superato, per scoprire quale nuova chiamata ci attende. Perché c’è sempre una nuova chiamata; è possibile “rinascere di nuovo”, anche da vecchi… Quale cammino posso avere ancora davanti se mi sento per molti versi superato, incompreso, incapace di stare nell’accelerazione dell’oggi, dove il digitale mi rimane un arcano e non c’è tempo di respirare un po’ dal covid che scoppia la guerra? Eppure la chiamata è sempre a muovere la tenda in avanti, magari non con la stessa rapidità in ogni fase della vita, magari neppure nella stessa collocazione, passando dall’avanguardia alla retrovia o viceversa, magari con mansioni, compiti diversi ma senza mai sentirsi fermi, sentirsi un peso, isolarsi. C’è un cammino interiore che è lasciato alla responsabilità di ciascuno e che chiede a ciascuno di trovare il modo giusto per spostare la tenda
e procedere, un passo dopo l’altro, assieme agli altri. La Chiesa nel deserto ha bisogno dell’apporto di tutti, nella diversità dei momenti e dei ruoli della vita, ma nessuno ha il diritto di chiamarsene fuori, perché fa del male a se stesso e anche alla chiesa intera. Amalek, dice Deuteronomio 25,18, aggredisce i più deboli della retroguardia; il nemico, commenta Origene, «se ci trova stanchi, senza forze, con lo sguardo rivolto all’indietro e posti da ultimi in coda, ci sopprime. Per questo dobbiamo sempre tendere in avanti ed affrettarci alle cose poste davanti, anzi salire sulla cima del monte e sempre innalzare le mani al cielo nella preghiera, perché così, alla fine, Amalek sia vinto e cada» (Origene, Omelie sui Numeri 19,1). La preghiera: ecco uno degli strumenti migliori per non “restare
con lo sguardo all’indietro”, nel rimpianto e nella commiserazione. La preghiera è dilatazione del cuore, dice Agostino, esercizio del desiderio (cf. Agostino, Lettera 130 8.17), e quindi è sempre una spinta ad andare avanti, a creare spazi, per noi e per gli altri, per camminare, per non scoraggiarsi, per resistere alla tentazione della moglie di Lot e per aiutare quelli che sono magari in prima linea a sostenere la fatica. La preghiera… e l’amore. Perché l’unico modo per rinascere di nuovo, in ogni momento della vita, è trovare il modo nuovo di amare che ci è richiesto in quel preciso momento.

Come ci sentiamo nella nostra età, nel nostro ambiente di vita, nel nostro compito ecclesiale? Abbiamo voglia di mollare qualcosa? Stiamo facendo un discernimento serio e onesto su questo? Lo stiamo facendo con lo sguardo rivolto all’indietro o in avanti? La preghiera è ancora alimento per la vita o dovere da compiere?

La tenda richiama inoltre le tappe del cammino, fatto di prove, tentazioni, combattimenti, consolazioni… I Padri sono degli interpreti eccezionali di questi momenti, fino ad attribuire ad ognuna delle 42 tappe nel deserto, elencate dal capitolo 33 del Libro dei Numeri, una particolare caratteristica del viaggio della Chiesa e dell’anima, pellegrinante tra prove, lotte, sollievo, momenti in cui imparare e altri in cui donare (cf. Origene, Omelie sui Numeri 27). Non mi addentro nei particolari ma penso che potrebbe fare bene alla nostra Chiesa guardare alle sue tappe, alle fasi che ha attraversato e che stiamo attraversando, passando per la triplice fase della tentazione, della prova e della purificazione per poter riconoscere dove hanno camminato e dove si stanno dirigendo i suoi
passi. Introduco anche un’ulteriore immagine, che non mi viene dai Padri ma da una suggestione ascoltata
l’altro giorno in un’intervista a un neuropsichiatra infantile. Diceva che in questo tempo di guerra, anche per i nostri bambini è importante l’idea di un “rifugio” (e tutti i bambini costruiscono – e abbiamo costruito da bambini – case, casette, tende, case sugli alberi… dove rifugiarci). Richiamava che c’è anche nella religione cattolica l’idea di un tabernaculum, un luogo intimo dove ci si possa rifugiare, dove è custodito al sicuro ciò che è più prezioso. Pensavo dunque che anche questo è camminare nella tenda: per quanto precaria essa continua ad essere una protezione che cammina con noi, un luogo di rifugio, e in fondo la Chiesa stessa è rifugio per la fede dei credenti e rifugio dove custodiamo insieme la speranza e realizziamo insieme la carità. Per quanto siamo abituati a dire che la fede non è un rifugio ma un cammino, e che ci inquieta più che tranquillizzarci, mi sembra importante non perdere questa dimensione, quella di costruire luoghi (spirituali e concreti) dove ci si possa sentire “al sicuro”, dove sentire la forza della solidarietà, la roccia della solidità di ciò in cui si crede, il sostegno di una preghiera e un’amicizia che unisce.
Possiamo chiederci se custodiamo, se ci prendiamo cura delle persone che ci sono affidate, del loro crescere nella fede ma anche per quanto possibile del contesto della loro vita, perché trovino in noi un appoggio, un sostegno, una aiuto concreto nelle difficoltà.
Infine la tenda ci porta a colui che ha posto la sua tenda in mezzo a noi, ha scelto di farsi “tessere” un corpo, ricamato nel seno di Maria per abitare tra noi. Una ecclesiologia, una contemplazione della chiesa non può che essere cristologica, non può che avere ben salda la consapevolezza che il nostro cammino è attorno al tabernaculum più bello, a colui che cammina in mezzo al suo popolo. È lui che per primo è disceso per farci risalire con lui, è lui che per primo ha percorso il cammino dal cielo alla terra per aprirci le porte del cielo, è lui che ci insegna il passo con la sua umanità e ci garantisce la meta con la sua divinità; è lui che attraversa con noi questo deserto, vince per noi le tentazioni, ci dona la forza per poter attraversare questo nostro tempo. È lui, con la sua morte e risurrezione, la grande speranza che dà un senso e una direzione a questo cammino altrimenti a volte davvero incomprensibile e doloroso; con lo sguardo fisso su di lui possiamo “non stancarci” come ci dice il
Papa nel suo messaggio per questa quaresima, o almeno appoggiare la nostra stanchezza in lui, le nostre lacrime nel suo otre dove nulla va perduto.

Nella preghiera che vivremo ora avremo la possibilità di rinnovare questa fiducia in Gesù Cristo, nostro Dio e nostro fratello, nostro amore e nostra speranza, origine e meta della fede e della vita, compagno di viaggio,  sempre.
Concludo con un passo, ancora dalle Omelie sui Numeri di Origene, che hanno dato tanti spunti alla nostra riflessione. Dopo aver parlato delle tende che il Signore ha piantato e della loro bellezza l’Alessandrino conclude: «Se hai compreso quale pace possieda la via della sapienza, quanta grazia e quanta dolcezza, non essere indifferente né trascurato, ma intraprendi questo viaggio e non avere timore della solitudine del deserto. Giacché se tu abiti queste tende, ti sarà offerta la manna celeste, e mangerai il pane degli angeli. Soltanto comincia e non ti spaventi, come abbiamo detto, la solitudine del deserto» (Origene, Omelie sui Numeri 17,4).

Buon cammino, aiutiamoci a farlo assieme, con impegno e attenzione, senza timore di quella solitudine del deserto, che, a dir la verità, conosciamo fin troppo bene. Gesù domenica ci mostrerà di averla già vinta per noi e che assieme a lui possiamo attraversarla.

suor Chiara Curzel FCJ