Suor Maria Cappelletto, dorotea, è la nuova responsabile della pastorale della salute

La saluti, ti congedi, le volti le spalle, per un attimo alzi gli occhi al cielo e ringrazi per quell’incontro arricchente, gioioso, empatico. È il dono di suor Maria Cappelletto: trasmette pace, spiritualità vera, un amore verso Gesù, se stessa e il prossimo così intensi che non si può non rimanere contagiati. Conosce il dolore, di grandi e piccoli, nelle sue innumerevoli esperienze professionali ha confortato, accarezzato, guidato; se necessario è rimasta in silenzio. Il benessere che emana è qualcosa che entra nel petto, attraversa lo sterno, si irradia in tutto il corpo. Crede in quello che dice, si sente. Dolcezza e calma sono i tratti che la distinguono e il recente incarico che le ha conferito il vescovo Giuliano le calza a pennello. Medicina della parole, del gesto, della fede che, unita ai farmaci può fare miracoli. Lei in questo è una fuoriclasse.

Dotorea, 59 anni, nata a Camposampiero (Pd), diocesi di Treviso, suor Cappelletto è la nuova direttrice dell’Ufficio di pastorale della salute della diocesi di Vicenza. Succede a don Giuseppe Pellizzaro (box a destra). Umile e riservatissima, aveva cercato di svincolarsi dall’incarico, ma il vescovo Giuliano non ha sentito ragioni. I due si conoscono dai tempi dell’insegnamento a Treviso e a Venezia.
La religiosa è infermiera d’esperienza, insegnante e ha un dottorato in teologia. In passato ha ricevuto incarichi di responsabilità. «La mia è una chiamata a lasciarsi muovere dalla compassione che aveva mosso Gesù quando camminava – racconta -. Si è commosso, non è passato oltre».

Certo la compassione è la base, servono però concretezza e visione.
«Il primo obiettivo è conoscere bene la situazione del territorio della diocesi, ho intenzione di muovermi, visitare le parrocchie, le case di cura, le rsa, incontrare i preti e i loro collaboratori per spronarli».

Alcuni preti lamentano di non avere tempo per occuparsi della pastorale sanitaria.
«Purtroppo mostrare il volto umano della chiesa oggi non è più scontato. È necessario creare rete per arrivare ai grandi bisogni. Le attese delle famiglie vanno intercettate. La chiesa è sempre stata molto attiva nell’ambito della pastorale della salute, ma dopo il Covid abbiamo registrato un impoverimento. Organizzeremo un corso formativo per animatori per la pastorale della salute nelle parrocchie, nelle strutture sanitarie. Coinvolgeremo sacerdoti, religiosi, laici. Bisogna trovare nuovi collaboratori e nuove forme di cooperazione. Servono coordinamento e nuove alleanze per stare vicino a chi oggi soffre. Invito le comunità a farsi vicine, a vivere l’ospitalità in modo nuovo, creativo».

La cura dei malati è cambiata. Dagli ospedali – dove si trascorre il tempo stretto e necessario – si è spostata in famiglia, nelle case di cura, nei territori. Come si può stare al passo?
«Serve un cambio di prospettiva. Un tempo entrare nel mondo oscuro della sofferenza era un disagio, oggi si sta scoprendo che è il malato ad ospitare te. Incontrando chi soffre si trovano una ricchezza, un patrimonio di fede e di grazia immensi, patrimonio che non va perso. Il malato può diventare evangelizzatore per la società d’oggi. Serve vicinanza fraterna ».

Nei territori le differenze culturali ed etniche sono sempre maggiori. Come fare?
«La realtà è complessa, viviamo in un pluralismo culturale e religioso, siamo circondarti da volti di tanti colori. Nelle strutture e nel territorio bisogna puntare sul dialogo interreligioso, valorizzando la dimensione ecumenica ».

C’è qualcosa che la preoccupa particolarmente?
«Viviamo in un contesto di grande povertà spirituale. La malattia ti chiama a ricercare un senso, riflettiamo su questo. Alcuni aspetti sociali andrebbero rivisti. Serve una sana politica, c’è la mancanza di una leadership adeguata, che sappia dare un’impronta valoriale ad un servizio così importante che riguarda tutti noi. Voglio incontrare i sindaci del nostro territorio. Dialogare è necessario, bisogna interpellare chi ha responsabilità e camminare insieme. Oltre al malato, vanno rimesse al centro le famiglie di chi soffre»

Negli ospedali a volte manca la compassione da parte di medici, infermieri ed operatori. È d’accordo?
«Il loro servizio è sempre più logorante ed impegnativo con turni quasi massacranti, non è facile. Conosco però fior di professionisti illuminati, sensibili, che sanno avvicinare cristianamente la malattia. Mi preoccupa la persecuzione dei sanitari, la malattia può essere un momento di crescita importante. Affrontare medici e infermieri con aggressività non è la strada giusta».

 

Articolo a cura de La Voce dei Berici