“Che cosa cercate?”

Lettera Pastorale alla Diocesi di Vicenza
Per l'anno 2017-2018

3. Il rimanere (vv. 38b-39)
Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Interrogati sul contenuto della loro ricerca, i due rispondono con una sorta di autoinvito: «Rabbì dove dimori?» (v. 38). Quasi a dire: «Dov’è casa tua, perché possiamo venire a trovarti?». Gesù ‘sta al gioco’ e, cogliendo la palla al balzo, li invita ad andare da lui: «Disse loro: “Venite e vedrete”» (v. 39). Gesù non dà subito la risposta, non fornisce un indirizzo, ma invita i due discepoli a seguirlo, offrendo la possibilità di fare un tratto di strada insieme. In fondo, il cammino di fede e di sequela è proprio così: alle nostre domande, inquietudini e desideri Gesù non offre soluzioni immediate, ma risponde con un invito. I due discepoli accolgono l’invito di Gesù e si fermano da Lui. Talmente significativa s’è rivelata quell’esperienza che ricordarono per sempre l’ora esatta dell’incontro. Nel testo originale è registrata la dicitura «ora decima», tradotta correttamente nel contemporaneo «le quattro del pomeriggio». Forse, si tratta anche di un modo per dire che rimasero parecchie ore con Gesù, fino a tardo pomeriggio, con calma, senza ansie e senza fretta, perché stavano molto bene in sua compagnia. Ci potremmo porre una domanda “intrigante”: cosa hanno fatto, di cosa hanno parlato in tutto questo tempo? L’evangelista non lo dice. Ci lascia supporre che si trattò di un’esperienza di intimità profonda, di scambio, di condivisione, che ha fatto scattare la molla dell’amicizia. Il silenzio sui contenuti è un modo per dire che ciascuno può vivere un’esperienza simile in modo unico e originale. Ciò che conta, comunque, è che essi «quel giorno rimasero con lui» (v. 39). «Rimanere» nel Vangelo di Giovanni, rimanda all’immagine della vite e dei tralci, e indica il legame stretto che si instaura tra Gesù e i suoi discepoli: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 3-5). Certamente, non si sono limitati a parlare, perché “rimanere” significa anche assumere gli stessi criteri di vita, la stessa maniera di vedere, giudicare, agire. Stare con Gesù è condividere il suo modo di vivere. “Fede è partecipazione al modo di  vedere di Gesù” (LF 18, cit. a pag. 31). La convivenza  con il Signore non può essere considerata come un’esperienza che si vive in qualche momento della vita. L’amico sta sempre con l’amico. Anche quando è lontano, il pensiero corre indietro o va dove si trova l’amico. Questo particolare del racconto tocca un aspetto in cui tutti siamo molto sensibili: è molto bello ricevere un invito, sentirsi desiderati e trovare ospitalità. Che ci sia qualcuno ad attenderci e ad accoglierci in casa sua, perché vuole godere della nostra compagnia, è tra le esperienze che ci appagano di più. Quando un amico o una persona amata ti invita a casa sua, oppure quando si condivide la stessa tenda in campeggio o la camerata dei campi scuola con altri coetanei, o quando si riesce a convivere serenamente con altri studenti durante un soggiorno studi all’estero, ecc. facciamo esperienza della bellezza della coabitazione, del dimorare in compagnia di altre persone, del calore dello stare assieme sotto un unico tetto. La comunità cristiana è – o dovrebbe diventare sempre più – il luogo dove si sperimenta l’accoglienza e l’intimità con i fratelli di fede e, ultimamente, con Gesù. Che un giovane senta nella sua parrocchia il calore di una casa che lo attende o, al contrario, la freddezza di una istituzione, ovviamente fa la differenza. Emerge il bisogno di intimità, di calma interiore, di tempi prolungati per se stessi, che sembrano non esserci più. Troppe esperienze sono vissute all’insegna del “mordi e fuggi”: è necessario «rimanere». La nostra Diocesi si è impegnata già da alcuni anni ad offrire esperienze di questa prolungata intimità nel centro «Ora decima», che accoglie gli itinerari del gruppo Sichem, gli appuntamenti di Incroci, la comunità del Mandorlo, gli incontri a Villa San Carlo (Costabissara) e nell’abitazione del Vescovo, accanto anche alla possibilità di cammini di singoli che ricercano un periodo di tranquillità, preghiera e accompagnamento. Che questa casa sia stata denominata con le stesse parole del Vangelo di Giovanni indica l’intuizione che la ispira. A questo punto è giusto chiederci: “Siamo comunità dove si può dimorare facilmente? Siamo ospitali nelle nostre  case, nei nostri ambienti, non per comodità o per senso di protezione, ma per progredire nella ricerca?”.
 
4. La condivisione della relazione (vv. 40-42a)
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. A questo punto veniamo a sapere il nome di uno dei due discepoli di Giovanni passati alla sequela di Gesù: Andrea, un umile pescatore. Andrea sente il bisogno di comunicare l’esperienza appena fatta e va in cerca del fratello Simone. Gli racconta dell’incontro con Gesù e gli offre la sua interpretazione: non gli dice soltanto: «Siamo andati nella casa da Gesù», bensì «Abbiamo trovato il Messia » (che in ebraico significa «unto, consacrato», che nella lingua greca si dice «Cristo»). Questo modo di riferire l’accaduto esprime la comprensione a cui Andrea è approdato: per lui, Gesù è il messia, l’atteso da secoli, il liberatore promesso da Dio. In altre parole, ora, i sogni di libertà e i desideri di una vita serena hanno trovato qualcuno che li renderà veri, concreti, alla portata di tutti. Nell’intimità dell’incontro, Andrea ha colto l’identità profonda di Gesù, una vera e propria epifania (rivelazione). Un saggio ebreo ha detto: «Ogni momento può essere la piccola porta attraverso cui entra il Messia»2. Comunque, Andrea attiva il “passaparola” e “conduce” letteralmente il fratello all’incontro con Gesù: «Vieni anche tu a conoscerlo di persona!». Il verbo “trovare” può indicare tanto l’incontrare per caso (come il contadino che scopre il tesoro mentre ara il suo campo), come lo scoprire alla fine di una ricerca (come il mercante che va in giro cercando perle preziose). I cammini che ci portano all’incontro con Cristo sono diversi e originali. Andrea si fa guida, pastore, si prende cura del fratello. “Essere cristiano non è un ruolo, ma un dono: Dio Padre ci ha benedetti in Gesù Cristo, suo Figlio, salvatore del mondo… Conoscere Gesù è il regalo più prezioso che qualsiasi persona possa ricevere; averlo incontrato è la cosa migliore che sia accaduta nella nostra vita, e renderlo conosciuto con le nostre parole e opere è la nostra gioia”3.
A volte ci possono essere comunicazioni di fede che semplicemente passano sopra la testa e non scaldano il cuore. Similmente capitano eventi cruciali che però non vengono compresi nella loro portata esistenziale. Quante istruzioni religiose può avere ascoltato un giovane in parrocchia, nel gruppo, o nelle lezioni di religione a scuola, senza percepirne il risvolto personale! «Ascoltare coloro che raccontano di Gesù non è sufficiente: essere discepoli significa fare le proprie esperienze con Gesù. Occorre guardare in prima persona, il che non può essere demandato a nessun altro»4. Come creare spazi perché i giovani possano «incontrare», entrare in contatto con Cristo e non solo sentire parlare di lui? L’annuncio del Vangelo può e deve entrare nel mondo giovanile mediante il “passa parola”: giovani che invitano altri giovani all’incontro personale con Cristo. Si parte dal bisogno di condividere, di incontrare e di allargare la cerchia delle conoscenze e delle amicizie, comunicando ad altri le esperienze più belle che si fanno (per turismo, per studio o per la ricerca di un lavoro…). Ricordiamo, al riguardo, le esperienze entusiasmanti delle Giornate Mondiali della Gioventù.

5. Gesù cambia il nome di Simone (v. 42b)
Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro. Se all’inizio dell’episodio era il Battista che aveva fissato lo sguardo su Gesù (v. 36), ora è Gesù che fissa lo sguardo su Simone. Di nuovo, non si tratta di un guardare in superfice ma di un vedere in profondità. Quante volte, ci guardiamo gli uni gli altri con superficialità, senza “toglierci i sandali” e in atteggiamento di rispetto? Giovanni Battista vede dentro Gesù, e ora Gesù vede dentro a Pietro. E quando Gesù vede dentro, vede ciò di cui solitamente non ci si accorge. Gli altri guardano a Simone, Gesù invece vede Cefa, la Roccia-Pietro. Simone vede la propria debolezza, Gesù vede la roccia, la forza presente in Simone, qualcuno su cui si può contare. Spesso noi siamo sconosciuti anche a noi stessi ed è necessario lo sguardo buono di qualcun altro che risvegli quanto di positivo e di forte è sepolto dentro di noi. Un’amicizia autentica offre, come primo dono, la stima reciproca. È uno sguardo originario, una sorta di “intuizione creativa”5, come lo sguardo di Dio alle origini: «Vide che era cosa buona» (cf. Gen 1,2-31). Gesù vede la bontà originaria di ogni uomo. E vede soprattutto le possibilità future, intuisce ciò che Simone – anche se Simone stesso non ne è consapevole – può diventare. Egli è un semplice pescatore, ma diventerà un pescatore di uomini (dicono i vangeli sinottici), una persona su cui Gesù edificherà la propria comunità. Papa Francesco commenta, citando anche l’esperienza significativa di Abramo: Queste parole sono oggi indirizzate anche a voi [giovani]: sono parole di un Padre che vi invita a «uscire» per lanciarvi verso un futuro non conosciuto ma portatore di sicure realizzazioni, incontro al quale Egli stesso vi accompagna. Vi invito ad ascoltare la voce di Dio che risuona nei vostri cuori attraverso il soffio dello Spirito Santo. Quando Dio disse ad Abramo «Vattene» che cosa voleva dirgli? Non certamente di fuggire dai suoi o dal mondo. Il suo fu un forte invito, una provocazione, affinché lasciasse tutto e andasse verso una terra nuova 6. I giovani apprezzano che qualcuno li aiuti a guardarsi dentro. Spesso, infatti, si sentono “inguardabili”, non apprezzabili, e inventano mille strategie per camuffare questa disistima di sé. ”Sono visto, dunque sono” sembra essere l’imperativo categorico oggi dominante, detto altrimenti «per esistere devo essere visto». In questo c’è del vero, solo che non tutti i modi di essere guardati hanno lo stesso valore; ci possono essere anche sguardi che avviliscono e sfruttano, riducono e impoveriscono… Per prendere coraggio e  lanciarsi nell’avventura della vita e nel dono generoso di sé, i giovani hanno urgente necessità di qualcuno che offra loro uno sguardo autentico, amorevole, ispirato alla verità e non alle mode. Questo sguardo diventa anche «discernimento»: «discernere» significa vedere chiaramente, distinguere, leggere dentro. Lasciarsi guardare da Gesù, per avere poi il coraggio e la gioia di guardarsi dentro. Il discernimento è un processo lungo, paziente, che avviene alla luce della Parola di Dio e del sapiente consiglio di una guida spirituale. Anche Simon Pietro ha avuto bisogno di qualcuno che lo accompagnasse da Gesù (Andrea), forse perché da solo non ce l’avrebbe fatta 7. Nell’incontro con i giovani sappiamo offrire questo tipo di accompagnamento discreto e fedele? I giovani stessi sanno maturare la disponibilità a lasciarsi accompagnare?Si inserisce qui l’invito pressante che il Vangelo rivolge agli adulti delle comunità cristiane, di “mettere da parte”i pregiudizi per “mettersi dalla parte” dei giovani, al loro  fianco, per camminare assieme e regalare loro uno sguardo carico di fiducia e apertura al futuro. Lo sguardo che Cristo riserva loro è “l’intuizione creativa”: Lui li guarda con infinita stima e infonde la speranza in ciò che potranno diventare.
 
Chi non traduce, tradisce (vv. 38.41.42)
“Rabbì – che tradotto, significa Maestro” (v. 38); “Abbiamo trovato il Messia, che si traduce Cristo” (v. 41); “sarai chiamato Cefa – che significa Pietro” (v. 42). E’ significativo che in questo brano, l’evangelista Giovanni si preoccupi a più riprese di tradurre in greco i termini aramaici che egli usa. Questa attenzione, motivata dal fatto che la comunità per la quale Giovanni scrive il suo vangelo è di lingua greca e non conosce il dialetto aramaico parlato da Gesù e dai suoi primi discepoli, indica una preoccupazione di grande valore: non basta riferire le parole dette a Gesù o da Gesù, ma occorre renderle comprensibili, e quindi significative, per la comunità in cui si vive e a cui si offrono come “parole di vita”. Come l’evangelista Giovanni, anche la comunità è chiamata a “tradurre” il Vangelo in un linguaggio che sia comprensibile e significativo per i giovani del nostro tempo. Questo sforzo di traduzione interroga i cristiani di oggi e in modo particolare quanti nella Chiesa svolgono un ministero di annuncio (vescovo, preti, diaconi, catechisti, animatori…): sentiamo l’urgenza di ‘tradurre’ il Vangelo per i giovani e le giovani del nostro tempo? Quanto il nostro linguaggio si preoccupa di rendere comprensibile e significativa la Parola di Dio? Non vi è evangelizzazione senza traduzione, senza un genuino sforzo di trasporre la ricchezza del Vangelo nella situazione in cui ci troviamo a vivere. Per quanto spesso si senta dire che “tradurre è tradire”, in riferimento all’annuncio del Vangelo è vero l’esatto contrario: chi non traduce tradisce. Ce lo conferma la storia della Chiesa, che è anzitutto e soprattutto storia missionaria: basti pensare all’opera evangelizzatrice degli apostoli, degli evangelisti nella Chiesa primitiva, alla mediazione teologica realizzata dai Padri della Chiesa nei primi secoli dell’era cristiana e, in tempi più recenti, all’impegno di tanti missionari, anche nostrani, che si sono fatti carico della duplice sfida dell’inculturazione del Vangelo e dell’evangelizzazione delle culture. E a noi, chi darà la capacità di ‘tradurre’ il Vangelo per il nostro tempo?
 
 
 
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Note:
2 T. Radcliffe, «L’orso e la suora. Qual è il senso della vita religiosa oggi?», in Cantate un canto nuovo. La vocazione cristiana, EDB, Bologna 2001, p. 199 (riedito come estratto nel 2017, cf. p. 21). 
3 V° Conferenza dell’Episcopato Latino-Americano, Documento di Aparecida, 2007, n. 29.
4 A. Grün, Gesù porta della vita. Il Vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2003, p. 42.
5 Il termine «intuizione» deriva da «intueor» che significa osservare, guardare attentamente, probabilmente derivante a sua volta da «intus»,che vuol dire «dentro». Anche l’intuizione è un “vedere dentro” alle cose e alle persone.
6 Lettera di papa Francesco ai giovani, pp. 3-4.
7 I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Documento preparatorio: nella fase del discernimento, ben descritta nella scansione dei tre momenti – riconoscere, interpretare, scegliere –, è necessario «l’aiuto di una persona esperta nell’ascolto dello Spirito [la quale si rivela] come un sostegno prezioso che la Chiesa offre e di cui è poco accorto non avvalersi» (p. 38).
 
 
 
 
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07/09/2016