“Cosa significa questo?”. Condividere il cammino tra stupore e perplessità

Messaggio del vescovo Giuliano per l'anno pastorale 2024/25

“Cosa significa questo?” (Atti, 2,12)

Condividere il cammino tra stupore e perplessità

Intervento del vescovo Giuliano all’inizio del nuovo anno pastorale

Santuario di Monte Berico, 7 settembre 2024

 

A tutti voi, fratelli e sorelle carissimi della Chiesa di Dio che è in Vicenza e a tutti gli uomini di buona volontà, grazia e pace nel Signore nostro Gesù Cristo.

Ringrazio Dio Padre con voi: Egli continua a trasformare il nostro cuore di pietra in cuore di carne mediante lo Spirito d’Amore che ci tiene uniti a Gesù Cristo suo Figlio e nostro fratello.

  1. Memoria dei martiri vicentini

Dieci anni fa, nel 2014 proprio come in questo giorno vigilia della festa della Madonna di Monte Berico, suor Olga Raschietti di Sant’Urbano (Montecchio Maggiore), all’età di 83 anni, venne aggredita e uccisa a Kamenge, un quartiere popolare della periferia di Bujumbura in Burundi. Era insieme a due consorelle: suor Lucia Pulici e suor Bernardetta Boggian. La casa dove queste tre donne missionarie saveriane hanno incontrato il martirio, ora è stata trasformata in un santuario dei martiri, che alcuni chiamano “Cappella della pace e della misericordia”.

A fine luglio di quest’anno, un gruppo di laici del Congo, legati alle Missionarie di Maria, ha compiuto un pellegrinaggio per vivere due giorni di esercizi spirituali sul luogo del martirio. Un laico ha detto: «subito ho sentito che le sorelle Olga, Lucia e Bernardetta erano lì con noi, che ci aspettavano con gioia, in un luogo colmo di grazie. Donne incinte, bambini, malati e altri erano in questa cappella per chiedere l’intercessione delle tre sorelle presso il Padre Celeste per i loro problemi».

Dal luogo in cui è stato sparso del sangue innocente si innalza ora dunque un grido di pace e di perdono.

Il 18 agosto scorso, poco lontano da quel luogo, oltrepassato il confine del Burundi, in Congo, presso la cattedrale all’aperto della diocesi di Uvira, una folla di uomini, donne e bambini, giunti anche da molto lontano, hanno cantato e danzato per la beatificazione di quattro martiri chiamati “martiri della fraternità”.

Tre sono missionari saveriani: fratel Vittorio Faccin partito per la missione da Villaverla, padre Giovanni Didonè originario di Cusinati (frazione di Rosà) e trasferitosi ancora ragazzo a Ca’ Onorai (frazione di Cittadella), padre Luigi Carrara della diocesi di Bergamo; il quarto martire è un prete diocesano congolese della diocesi di Uvira, Albert Joubert.

Essi furono uccisi il 28 novembre 1964 durante la ribellione mulelista contro il Governo congolese: due nella missione di Baraka e gli altri due nella missione di Fizi. Nel clima violento dei primi anni ‘60, mentre gli europei e la gran parte dei missionari cattolici e protestanti lasciavano il Congo, i saveriani decisero invece di rimanere accanto al popolo.

Quel che avvenne quel 28 novembre è stato così ricostruito dal Dicastero delle Cause dei Santi.

Intorno alle ore 14.00, davanti alla chiesa di Baraka si fermò una jeep militare da cui scese Abedi Masanga, un capo dei ribelli mulelisti che da mesi occupavano la zona. Costui invitò fratel Vittorio Faccin a salire sulla jeep e alla sua richiesta di andare ad avvisare il confratello, gli sparò al petto uccidendolo. Dopo aver sentito gli spari, padre Carrara, che stava confessando, si diresse all’esterno della chiesa. Abedi gli intimò di salire in macchina, ma padre Carrara, alla vista del confratello morto, si inginocchiò davanti al suo corpo per benedirlo e qui fu ucciso con un proiettile alla testa. [I cadaveri dei due religiosi furono orrendamente smembrati e un braccio di fratel Vittorio fu portato come trofeo in giro per il villaggio di Baraka da un giovane, appartenente al commando dei ribelli, che poi si convertì].

Dopo queste uccisioni, la jeep del colonnello ripartì diretta a Fizi nell’altra missione, dove giunse in serata. Qui, egli – contro il parere dei capi dei ribelli mulelisti che controllavano la missione e che proteggevano i Padri Saveriani – si diresse alla parrocchia e fece chiamare i Religiosi. Padre Didonè, recando in mano una lampada, aprì la porta insieme all’abbé Joubert. Alla vista delle armi padre Didonè fece appena in tempo a fare un segno di croce, quando il colonnello sparò colpendolo in fronte. Subito dopo sparò anche all’abbé Joubert, colpendolo al petto. Joubert, ferito, tentò di allontanarsi, ma fu raggiunto mortalmente da un altro colpo alle spalle.

Quattro missionari hanno donato la vita per amore di Dio e del suo popolo.

Per i nostri fratelli e sorelle che vivono nella Repubblica Democratica del Congo, Paese splendido e ricco di materie preziose che ancora non conosce pace, la beatificazione dei “martiri della fraternità” ha rappresentato un annuncio lieto e pieno di speranza, perché essi seppero affrontare l’odio e la violenza con il coraggio della mitezza e la forza dell’amore.

«Basta con le violenze! Basta con le barbarie! – ha implorato il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa durante il rito di beatificazione – Basta con le uccisioni e le morti sul suolo congolese e nella sub-regione dei Grandi Laghi. Le violenze e le guerre sono frutto della stoltezza. Sono condotte da persone che si allontanano dal cammino dell’intelligenza, da gente insensata, che non ha né timore di Dio, né rispetto per l’uomo, creato a immagine di Dio!». I nuovi beati – ha aggiunto il cardinale – sono per noi “modelli di vita cristiana”, «scelsero di testimoniare la loro fraternità evangelica rimanendo accanto ai loro fedeli fino all’effusione del sangue. Da allora, il loro sangue è diventato “una semente” per l’evangelizzazione profonda della Repubblica Democratica del Congo e di tutta la Chiesa».

  1. “Che cosa significa questo?”

“Che cosa significa questo” per noi cristiani e cittadini di Vicenza? Quello che è accaduto a suor Olga, a fratel Vittorio e a padre Didonè ci riguarda? E il riconoscimento da parte della Chiesa dei “martiri della fraternità”, dichiarati beati e quindi consegnati a noi come testimoni e modelli di vita evangelica, è una Parola che Dio rivolge alla nostra chiesa e terra vicentina? Come può dire il cardinale di Kinshasa che il sangue dei quattro martiri è diventato “una semente” di evangelizzazione, non solo per il Congo, bensì per tutta la Chiesa? Che cosa significa questo?

Queste domande mi hanno ricondotto al racconto della Pentecoste descritta negli Atti degli apostoli.

Nella città di Gerusalemme, persone provenienti da diverse parti del mondo, sentendo gli apostoli parlare in tante lingue delle grandi opere di Dio (At 2,11), si chiedono: “cos’è questo?”. Tutti si sentivano stranamente coinvolti in ciò che accadeva. Come se un vento li avesse avvolti suscitando due sentimenti contrastanti: stupore e perplessità.

Stupore per il fatto che gli apostoli, fino a poco prima colti da grande timore, ora li si vede totalmente trasformati e pieni di entusiasmo. In città, cinquanta giorni prima, si era creato un grande sconcerto. Tutti avevano sentito parlare di ciò che era accaduto. Un uomo buono, che si faceva carico delle situazioni di fragilità e malattia, era stato accusato di “blasfemia” perché si dichiarava “figlio di Dio”, l’unto, il “messia” parlando della vicinanza di Dio e del suo regno. Quell’uomo era stato condannato a morte, flagellato e crocifisso come uno dei peggiori malfattori. I suoi amici avevano assistito un po’ a distanza a tutto questo ed erano pieni di tristezza per quanto era accaduto. Ma adesso che cosa era avvenuto? Come mai sono così pieni di forza da sembrare degli “esaltati”? Alcuni si prendevano gioco di loro dicendo “Sono ubriachi di vino dolce” (At 2, 12).

Insieme allo stupore c’era pure qualche perplessità perché non si comprendeva bene dove volessero condurre la gente. Sarà emozione passeggera? Tra qualche giorno tutto sarà più tranquillo? La città di Gerusalemme non aveva di certo bisogno di nuove tensioni sociali, sommosse e condanne a morte. E la domanda era sulla bocca di molti: “che cosa significa tutto questo?” Si cercava il senso di quello che era accaduto. Il “Maestro” non si era più visto dopo la sua morte, anche se alcuni affermavano di averlo incontrato con il suo corpo segnato dalle ferite, ma in una condizione nuova, difficile da spiegare. Alcune donne e pure alcuni discepoli dicevano di aver parlato con Lui.

Adesso quel gruppo di uomini e donne, un tempo chiusi per la paura nel Cenacolo, vanno incontro a tutti e parlano con tutti delle grandi opere di Dio. Era questo che creava perplessità, suscitava interrogativi e domande di senso.

  1. Un popolo in cammino con le lanterne in mano

 Anche noi, come nel giorno di Pentecoste, ci chiediamo: “Che cosa significa” per noi popolo di Dio che è in Vicenza la beatificazione di quattro martiri, in un tempo di grandi cambiamenti della società, delle nostre comunità e parrocchie?

Come vescovo di questa Chiesa mi sento fortemente interpellato e desidero invitare il presbiterio, la comunità diaconale, le consacrate e i consacrati, insieme alla moltitudine di laici e famiglie che tengono vive le nostre comunità cristiane a lasciarsi raggiungere dalla benedizione di Dio riversata su di noi attraverso questi quattro “martiri della fraternità”.

Partecipando al rito della loro beatificazione in Congo, insieme ai parenti e ad una rappresentanza delle parrocchie di origine, ho provato una profonda commozione per il sangue versato da queste giovani vite (erano poco più che trentenni i tre martiri italiani) inviate in missione con il desiderio di donarsi senza riserve nel nome di Gesù a persone sconosciute, ma tutte amate da Dio.

Padre Giovanni Didonè il giorno della sua ordinazione sacerdotale aveva chiesto a Dio il dono della fedeltà fino al martirio e prima di partire per la missione era salito a Monte Berico per invocare aiuto e protezione dalla Madre di Dio.

Mi chiedo insieme a voi: la lanterna che padre Giovanni teneva in mano quando venne ucciso – ed è rimasta accesa, vegliando sul suo corpo morto, fino alle prime luci del mattino – non deve forse rimanere accesa anche qui in mezzo a noi? Non ci è forse chiesto il coraggio di scommettere di più la nostra vita sull’Amore di Dio, abbandonando tranquille sicurezze per uscire incontro alle persone, prenderci cura di loro, soprattutto delle più fragili?

Se dovessi immaginare come potrebbe essere il nuovo Anno pastorale lo descriverei allora come un popolo in cammino, ciascuno con una lanterna in mano che illumina l’oscurità e porta luce e calore nelle nostre città e nei nostri paesi.

3.1 Vogliamo innanzitutto prendere in mano la nostra lanterna accesa con la luce della speranza.

È «lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza». Ce l’ha ricordato papa Francesco nella Bolla di indizione dell’Anno Santo: «Egli [lo Spirito Santo] la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino» (Spes non confundit, 3)

Il nuovo Anno pastorale sarà caratterizzato dall’accogliere la grazia dell’Anno Santo che avrà inizio qui in diocesi con il primo pellegrinaggio giubilare dalla Chiesa di Santa Corona alla Cattedrale nel pomeriggio del prossimo 29 dicembre.

«Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé», afferma ancora papa Francesco. «L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità» (ibid., 1).

Quante attese deluse nel cuore dei carcerati che non trovano una casa accogliente e una prospettiva di riscatto dal male compiuto! Tante sono anche le attese presenti negli adolescenti inquieti che faticano ad uscire dal loro piccolo mondo e sognano una vita felice che sembra però irraggiungibile. Quante attese nelle coppie che non riescono ad avere un figlio. Anche gli anziani desiderano una presenza, una parola, un sorriso per fuggire dalla tristezza della solitudine. Senza dimenticare i viaggi della speranza, quelli dei migranti che lasciano i loro paesi in cerca di pace, lavoro e salute. Come non ricordare coloro che in quest’ora buia, sotto le bombe, da mesi e mesi attendono non dico giorni di pace, ma almeno una tregua?

Portiamo sempre con noi la lanterna nella quale brilla la luce della “speranza che non delude”, quella che «nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce» (ibid. 3).

Per aiutarci ad accogliere la grazia dell’Anno Santo promuoveremo alcuni pellegrinaggi a Roma e altri qui in Diocesi presso i santuari che verranno indicati. Ma la misericordia di Dio potrà certo raggiungere anche chi, non potendo muoversi, compirà un pellegrinaggio del cuore, tutto interiore e spirituale.

3.2    La luce della speranza ci permette di affrontare insieme il cammino animati dallo Spirito Santo che ci spinge a uscire, come è avvenuto il giorno di Pentecoste.

Ciò che interroga, ieri come oggi, è la condizione di piccola comunità, minoritaria e smarrita.

La comunità degli inizi è davvero piccola (cf At 1,13-14). L’evangelista Luca la descrive citando innanzitutto per nome gli undici, poi vi sono alcune donne insieme a Maria e altri parenti di Gesù. Rispetto alla città di Gerusalemme è una comunità simile ad un granello di senape. E non è neppure una comunità tanto sicura di sé; essa vive un po’ smarrita per tutto quello che è accaduto al Maestro. Ma continua a cercare il modo di custodire ciò che alcuni hanno vissuto personalmente e in gruppo: hanno incontrato il Signore risorto. Perciò è una comunità sì smarrita, ma con la presenza di Maria che è “concorde nella preghiera”. Che ne sarà di questa comunità? Avrà un futuro? Potrà crescere? E come?

Sono domande simili a quelle che sorgono oggi nelle nostre parrocchie, sempre più piccole in un contesto che non è più cristiano come un tempo. Perplessità e senso di smarrimento prende anche noi vedendo sempre più ridotta la presenza alle celebrazioni domenicali, con la fatica di individuare nuove figure di educatori e catechisti per le giovani generazioni.

Ma un “piccolo resto” persevera nel credere, nella forza di essere concordi nella preghiera e nell’ascolto della Parola di Dio. Famiglie cristiane che si avvertono “piccola chiesa domestica” e cercano legami nella comunità cristiana per mantenere viva la fiamma dell’amore coniugale. Presbiteri che continuano, pur tra mille sfide, a scorgere “i segni dei tempi” presenti nelle parrocchie e vivono, nel cambiamento, quali cercatori di Dio e annunciatori del Vangelo. Consacrate e consacrati, alcuni anche giovani (ci sono, anche se pochi!) che accolgono la chiamata alla verginità e al celibato da innamorati di Dio, instaurando relazioni buone laddove sono inviati.  Senza dimenticare alcuni giovani che nelle associazioni o all’Ora decima si riuniscono ogni settimana per ascoltare il Vangelo e condividere le proprie domande di senso: molti anche nelle esperienze estive come la Route nazionale dell’Agesci a Verona, il campo giovani di Azione Cattolica e il servizio in diverse parti del mondo con Missio giovani.

Camminiamo insieme, con la lanterna della speranza che ci aiuta a scorgere i tanti riflessi di luce presenti in mezzo a noi. Così possiamo avventurarci con gioia nel cammino sinodale con scelte coraggiose di rinnovamento delle parrocchie nelle unità pastorali.

Affido alla preghiera, specialmente delle comunità contemplative, i prossimi incontri vicariali e la grande Assemblea diocesana che stiamo preparando per inizio febbraio.

3.3   Portiamo la luce della speranza, camminando insieme, per essere a servizio del mondo.

I cristiani non sono un gruppo settario, estraniati dal mondo. Come ricorda la Lettera a Diogneto, noi abbiamo una doppia cittadinanza. Siamo come migranti in questo mondo perché apparteniamo al Cielo, a Cristo che vive risorto presso il Padre. Nello stesso tempo siamo cittadini come tutti gli altri, rispettando le regole stabilite, anzi con una condotta di vita che dovrebbe essere esemplare. Il nostro compito è quello di offrire un’anima al corpo sociale. Siamo a servizio del mondo per tenerlo unito, in pace, orientato al bene di tutti, soprattutto dei poveri, e sempre più responsabile nella custodia del creato.

Possiamo realizzare questa nostra vocazione con spirito di servizio soltanto radicati nelle “realtà essenziali” che costituiscono l’identità della Chiesa: l’ascolto della Parola di Dio che propizia l’incontro con Lui nella Liturgia, specialmente nell’Eucaristia, generando così unione fraterna nella Carità.

Pertanto il nuovo Anno pastorale sarà anche l’anno della chiamata di alcuni uomini e donne ad accogliere la grazia del ministero istituito di lettore o accolito o catechista; preparati da un tempo di formazione e destinati al servizio nelle nostre comunità. Se l’anima delle parrocchie respira a pieni polmoni dello Spirito Santo, queste saranno in grado di offrire al corpo del mondo un «nuovo umanesimo: [perché] anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo» – come ebbe a dire San Paolo VI (Discorso a conclusione del Concilio Vaticano II¸ 7 dicembre 1965).

All’inizio del nuovo Anno pastorale, alimentiamo la speranza e continuiamo con tenacia a pregare per la pace.

Affidiamo il cammino diocesano all’intercessione dei nuovi beati e a Maria che papa Benedetto XVI indicò come “stella della speranza”.

«La vita umana è un cammino. Verso quale meta? Come ne troviamo la strada? La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo “sì” aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo?» (Spe salvi, 49).

«Insegnaci, Maria, a credere, a sperare e ad amare con te; indicaci la via che conduce alla pace, la via verso il regno di Gesù. Tu, stella della speranza, che trepidante ci attendi nella luce intramontabile dell’eterna patria, brilla su di noi e guidaci nelle vicende di ogni giorno, adesso e nell’ora della nostra morte» (Benedetto XVI, 8 dicembre 2007)

Santa Maria, stella della speranza – prega per noi.

Beati fratel Vittorio, padre Giovanni e martiri della fraternità – pregate per noi.

† Giuliano Brugnotto

                                                                       vescovo di Vicenza

 

La foto si riferisce al trasferimento delle reliquie dei “martiri della fraternità” avvenuta nei giorni della beatificazione a Uvira- diocesi di Vicenza