CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA MEMORIA DI N.S. DI LOURDES Vicenza – Ospedale S. Bortolo, 13 febbraio 2024

CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA MEMORIA DI N.S. DI LOURDES

Vicenza – Ospedale S. Bortolo, 13 febbraio 2024

Letture: Is 66,10-14c; Gdt 13,18-19; Gv 2,1-11

Dio non vuole lasciare solo nessuno. Il suo desiderio si era già manifestato nella creazione quando volle che accanto all’uomo ci fosse la donna e potessero vivere in relazione l’uno con l’altra e generare nuove relazioni con i figli.

Ma anche quando il popolo di Israele si trovò in situazione di crisi per l’esilio che dovette subire e le guerre che si trovò a combattere, Dio promette che farà scorrere come un fiume la pace. E utilizza delle immagini molto materne – qui emerge un volto di Dio che non solo è padre ma anche madre: voi sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò. Sono immagini che riconducono alla relazione iniziale di ciascuno di noi, quella con nostra madre. Ricordo quello che disse ad un Angelus San Giovanni Paolo I: «noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. I figlioli, se per caso sono malati, hanno un titolo di più per essere amati dalla mamma. E anche noi se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore» (10 settembre 1978).

Ce lo conferma il Vangelo. La madre di Gesù vede che alla festa di nozze il vino buono è terminato. Lei, che ha un cuore materno, ricorre al Figlio. E il Figlio di Dio realizza pienamente le promesse antiche: voi lo vedrete, gioirà il vostro cuore. Non è venuta meno la gioia degli sposi e degli invitati a nozze. Questo è quello che Dio ci ha manifestato in Gesù. È andato incontro anche a chi non si poteva toccare perché trasmetteva la malattia: il lebbroso. Lo ha toccato e lo ha liberato dal male fisico e dal male interiore e lo ha fatto sentire parte della comunità.

Questo è il compito che Gesù ha affidato alla Chiesa: costruire comunità. Non è bene che l’uomo sia solo. Aiutare tutti a sentirsi parte di un corpo. Il male più grande è l’isolamento. E si può essere isolati in tanti modi.

Si può essere soli nel momento della morte perché la pandemia impedisce ai parenti di farsi vicino (in quell’ora gli infermieri e il personale sanitario sono stati dei veri e propri angeli, capaci di colmare un vuoto terribile).

Si può essere soli perché abbandonati a se stessi nella guerra. Come sta accadendo in molte parti del mondo: non arriva il cibo, non arriva l’acqua, non arrivano i medicinali. La guerra è la più terribile delle malattie sociali e le persone più fragili ne pagano il prezzo più alto.

Si può essere soli perché anziani si ha ancora un po’ di autonomia, ma si è isolati in casa, perché i figli e i nipoti sono impegnati con il lavoro e con le loro famiglie. Ma si può essere soli anche in una casa di riposo quando si attende per settimane e settimane un parente che venga a trovarti.

E si può sperimentare questa solitudine nella malattia a casa o in un letto di ospedale. Eppure noi viviamo in un paese ricco; ma il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono.

E qual è la causa di questo? Nel messaggio che ci ha consegnato Papa Francesco per la giornata mondiale del malato incontriamo una risposta: Questa triste realtà è soprattutto conseguenza della cultura dell’individualismo, che esalta il rendimento a tutti i costi e coltiva il mito dell’efficienza, diventando indifferente e perfino spietata quando le persone non hanno più le forze necessarie per stare al passo. E ricorda quanto aveva scritto in Fratelli tutti: Diventa allora cultura dello scarto, in cui «le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani» (Enc. Fratelli tutti, 18). Complici di questa cultura sono anche alcune politiche quando non riescono a mettere al centro la dignità della persona umana e dei suoi bisogni, e non sempre favoriscono strategie e risorse necessarie per garantire ad ogni essere umano il diritto fondamentale alla salute e l’accesso alle cure, anche quando vi sono malattie degenerative o terminali che possono essere accompagnate con le cure palliative.

La missione che Gesù ha affidato alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà è quella di essere vicini a chi soffre: una vicinanza fatta di compassione e tenerezza. Prendersi cura del malato significa anche prendersi cura delle sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari – col creato con se stesso.

E papa Francesco consegna una parola piena di umanità a quanti soffrono: A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire: non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza! Non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri. La condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi.

Con l’amore di Cristo, che noi riceviamo celebrando questa Eucaristia, curiamo le ferite della solitudine e dell’isolamento, diffondendo la cultura della compassione, tenerezza, solidarietà.

Ci affidiamo a Maria, Salute degli infermi, perché preghi per noi e ci aiuti tutti ad essere artigiani di vicinanza e di relazioni fraterne.

 

† vescovo Giuliano

 

Messaggio di Papa Francesco per la XXXII Giornata mondiale del malato. «Non è bene che l’uomo sia solo». Curare il malato curando le relazioni